Nonostante sia uno dei club più longevi nella storia della Bundesliga, la storia del Werder Brema si contraddistingue soprattutto per due ere: quella di Otto Rehhagel a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 e quella più recente di Thomas Schaaf, che si è sviluppata tra il 1999 e 2013. Un’era che ha portato al Weserstadion un Meisterschale, tre DFB-Pokal e una supercoppa. Un palmarès che, in ogni caso, non inquadra al meglio ciò che i Grün-Weiß hanno rappresentato per la Bundesliga e per il calcio tedesco in generale. Un club di prestigio che si è risollevato da anni bui fino a splendere in Germania e sognare anche in Europa. Sulle spalle di uno dei migliori allenatori dello scorso decennio, a cui forse non sono mai stati riconosciuti i giusti meriti.
La storia di Schaaf a Brema comincia nel 1974, quando a 13 anni lascia Mannheim per giocare nelle giovanili del Werder. La sua carriera da terzino destro da professionista si sviluppa interamente nel nord della Germania, fino al ritiro. Attualmente è 15° per presenze nella storia del club. Sempre nella città dei musicanti muove i suoi primi passi da allenatore delle giovanili a inizio anni ’90, poi da assistente di Rehhagel, fino ad assumere la guida della prima squadra dopo altri anni di praticantato con la seconda nelle serie inferiori. È il 1999. Il Werder è reduce da stagioni difficili, quella che era una squadra di vertice si è ritrovata a metà classifica e ha bisogno di un rilancio e di mantenere la categoria. Cosa che con Magath in panchina sembrava non così scontata.
Schaaf si affianca al direttore sportivo Klaus Allofs e ha la responsabilità di gestire un cambio di ciclo. Inizia salvando il club e vincendo miracolosamente la DFB-Pokal. Nei primi anni conta ancora su due leggende come Marco Bode (oggi capo del direttivo del club) e Andreas Herzog, ma intanto inizia a plasmare quella che diventerà la sua squadra, il suo Werder. Quello che, dopo due sesti posti consecutivi, arriverà alla vittoria di un titolo incredibile nel 2004, con annessa coppa.
Il Werder anche in quegli anni è un club che, se c’è bisogno di vendere, ringrazia e lascia partire. Si vedano i casi di Thorsten Frings, Claudio Pizarro e Frank Rost, giocatori ceduti nei primi anni di Schaaf. Elementi che è facile ritenere essenziali per provare l’assalto al titolo. Che, invece, è stato vinto senza nessuno di questi. I primi due avranno comunque tempo e modo di togliersi grandi soddisfazioni tornando a Brema rispettivamente nel 2005 e nel 2008.
“Quando sono entrato in carica nel 1999 avevamo una grande squadra con poca identità. Abbiamo dovuto ringiovanire la rosa, vendendo giocatori importanti e acquistando giocatori dal grande potenziale o convenienti da comprare”.
Thomas Schaaf a Stern.de
Pizarro, ad oggi capocannoniere all-time del club, è stato uno dei primi acquisti targati Schaaf. Il peruviano è arrivato nel 1999 e dopo due anni il Bayern se l’è già assicurato. Un anno prima era arrivato un altro Sudamericano, stavolta via Messico: Ailton, l’uomo che nel 2004 scriverà la storia a suon di goal.
Un portiere che era finito all’Iraklis e al Murcia dopo aver vinto il titolo col Kaiserslautern nel 1998. Un terzino destro che si era rivelato un flop clamoroso al Milan e all’Inter. Due centrali pescati allo Strasburgo e al Partizan. Un terzino sinistro italo-canadese acquistato qualche anno prima dai Toronto Lynx. Tre centrocampisti acquistati da Amburgo, Norimberga e Stoccarda, non proprio tre eccellenze di quegli anni. Un fantasista rimesso in piedi dopo due anni a dir poco altalenanti a Parma, un attaccante croato da 8 goal in 2 anni e un brasiliano sovrappeso. Oppure: Reinke, Davala, Ismaël, Krstajic, Stalteri, Ernst, Baumann, Lisztes, Micoud, Klasnic, Ailton. Più Borowski e Schulz, titolari aggiunti e prodotti del settore giovanile, e Angelos Charisteas, che avrebbe vinto l’Europeo con la Grecia nell’estate del 2004.
Ecco, questa è più o meno la squadra che si presenta ai nastri di partenza della Bundesliga 2004. Con aspettative di qualificazione all’allora Coppa UEFA. Perdendo un’amichevole estiva per 0-4 contro il Pasching, squadra austriaca, poco prima di iniziare la stagione. E invece diventa una delle squadre più iconiche, per il calcio verticale e divertente che propone e per come è stata in grado di dominare il campionato, dopo un inizio altalenante.
A novembre cambia il passo: 23 partite consecutive senza mai perdere, prendendo la prima posizione grazie alla 16ª giornata per poi non mollarla più. Una marcia trionfale. La vittoria del titolo arriva all’Olympiastadion, a due giornate dal termine, dopo un netto 6-0 all’Amburgo in un Nordderby entrato nei libri di storia. E per il quale Hoeness grida al complotto.
“Non è stato un salto improvviso, ma uno sviluppo continuo. La vittoria contro l’Amburgo e le proteste del Bayern sono state un altro segnale che eravamo noi la miglior squadra in Germania”
Frank Baumann, capitano del Werder, a Deichstube.de
A Monaco il trionfo. Pronti-via: una papera di Kahn spalanca la porta a Klasnic, poi due perle di Micoud e Ailton chiudono i conti. Tre goal in 35 minuti, sotto gli occhi di Claudio Pizarro, che vive un pomeriggio di rimpianti per non aver potuto sollevare un Meisterschale nel club a cui è più legato. La sua bacheca non è certamente vuota, ma un campionato a Brema l’avrebbe ulteriormente arricchita.
Dopo 10 giorni di festeggiamenti sfrenati (con in mezzo due sconfitte ininfluenti, di cui un 2-6 subito dal Leverkusen), la squadra si riassesta e vince anche la DFB-Pokal battendo l’Alemannia Aachen in finale. Decisiva una doppietta di Borowski.
La gloria è tutta per il compagno d’attacco di ‘Piza’ in quei due anni, un brasiliano geniale, dai piedi delicatissimi e dal fisico forse discutibile. Ailton, acquistato nel 1998 dal Tigres, ha fatto parlare non solo per la sua pancia piuttosto accentuata, ma anche per il suo talento. Fino all’estate del 2003 è considerato un ottimo attaccante da 72 goal in quattro stagioni e mezzo, poi diventa una star assoluta segnandone 34, 28 in campionato e 6 in DFB-Pokal. Protagonista assoluto di entrambi i trofei conquistati in quella stagione magica.
La stagione 2003/04 è quella di gloria, la chiude da capocannoniere anche in Bundesliga. Si mette in bacheca il Torkanone, a coronamento di quasi 6 anni iniziati in un hotel mangiando solo spaghetti, proseguiti con una mancata cessione al Botafogo e culminati in un’esplosione in campo nella stagione 1999/2000. Secondo lui, per questioni sessuali. Forse, in realtà, per l’arrivo di Schaaf in panchina. Si guadagna il soprannome di ‘Lightning ball’, che tradotto è una sorta di ‘Fulmine circolare’ che rende poco l’idea. Fa di tutto pur di giocare in una nazionale, chiede anche la cittadinanza del Qatar, fallendo. Non è mai stato convocato dal Brasile. Mistero.
Nel 2003 lo cerca andare al Bayern, invece rimane, ma durante la stagione firma un pre-contratto con lo Schalke a zero per la stagione successiva. Di fatto la stagione più importante della sua carriera (secondo posto, dietro soltanto a Henry, nella graduatoria per la Scarpa d’Oro) la gioca sapendo già di dover lasciare la squadra a cui più aveva dato. E da cui più aveva ricevuto.
“Negli ultimi mesi ho pianto molto, a casa, in bagno, a letto. Continuavo a ripetermi ‘Perché lo Schalke? Perché?’”
Ailton
La partita del titolo la chiude in lacrime a centrocampo, le stesse versate tante volte in casa. Segnerà 14 goal a Gelsenkirchen, poi se ne andrà. Il suo nome, in Germania, è e sarà sempre associato al Werder Brema. Il suo ritorno nel 2014 per una partita di beneficienza è un’autentica standing ovation.
L’era Schaaf dura altri 9 anni dopo il double del 2004, ma il Werder non riesce più a vincere un titolo nazionale: soltanto una DFB-Pokal, nel 2009. Fa registrare stagioni memorabili, per altri quattro anni si guadagna l’accesso alla Champions League. Nel 2006 va anche ad un passo dall’eliminare la Juventus di Capello agli ottavi, salvata soltanto da una papera di Wiese, che ha ereditato il posto di Reinke con fortune alterne.
Si consola facendo incetta di top player, a partire da Frings e Pizarro, fino a Naldo, Klose, Diego, Özil. Scopre una leggenda come Clemens Fritz, che eredita la fascia da Frank Baumann al momento del ritiro nel 2009. Oggi entrambi sono in società. Arriva anche a vincere un’altra DFB-Pokal, nel 2009. Senza mai strapagare i giocatori, andando difficilmente oltre i 10 milioni di euro per un cartellino. Scoprendone tanti, lanciandone diversi. Rimase ai vertici, fino agli ultimi anni.
Schaaf lascia la squadra nel 2013, al termine di una stagione chiusa al 14° posto. Il ciclo è finito, l’incantesimo terminato. Dopo 40 anni, il suo nome e quello del Werder Brema si separano. È tornato pochi mesi fa come coordinatore, perché ormai Brema e il Werder sono casa sua. Il posto giusto per chi ha scritto la storia del club.
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