L’Al-Hilal è una delle realtà più solide del calcio saudita. Forse la più importante, considerati i 14 titoli vinti nella storia del campionato locale, che fanno della squadra con sede nella capitale la più vincente in patria. Dopo cinque anni passati a rincorrere le prime della classe, la compagine di Riyad è tornata sul trono saudita nel 2016. Da qui è partita la campagna straordinaria in Asian Champions League, competizione che i Blue Knights hanno vinto già in due occasioni. L’ultima volta fu nel 2000, trascinati dalle reti del brasiliano Sergio Ricardo e dalle parate del mostro sacro Mohamed Al-Deayea, 178 presenze in nazionale e ben undici stagioni passate a difendere i pali dell’Al-Hilal.
Riportare il trofeo a Riyad era l’obiettivo principale sin dall’inizio e oggi – grazie alla cultura del lavoro portata in Arabia Saudita da Ramon Díaz – il traguardo è distante solo due partite.
IL CAMMINO – Il percorso dell’Al-Hilal è stato praticamente perfetto. La squadra di Ramon Díaz non ha ancora perso una partita in questa edizione di Asian Champions League, vincendo il proprio raggruppamento con tre successi ed altrettanti pareggi. Dodici punti ma non solo, perché pur non essendo una squadra che eccelle in nessuna particolare fase di gioco, l’Al-Hilal non ha mai dato l’impressione di andare in difficoltà nonostante ostacoli complicati come Al Rayyan e soprattutto Persepolis, compagine che ha creato diversi grattacapi al sodalizio saudita anche in semifinale. Nella prima fase l’Al-Hilal ha vissuto soprattutto sulla cooperativa del gol messa su da Díaz: i dieci gol segnati in sei partite sono stati messi a segno da cinque giocatori diversi. È solo successivamente che la forza poderosa di questa squadra è uscita definitivamente; gli ottavi di finale sono stati liquidati con una doppia vittoria sugli iraniani dell’Esteghlal Khuzestan, mentre ai quarti è salito in cattedra Carlos Eduardo. La tripletta rifilata all’Al Ain di Omar Abdulraham ha spedito l’Al-Hilal in semifinale, dove i Blue Knights hanno dovuto nuovamente fare i conti col Persepolis, spazzato via con un 4-0 nella gara di andata. L’atto finale contro gli Urawa Reds rappresenta una sorta di spartiacque: con una vittoria, il movimento saudita tornerebbe nel gotha del calcio asiatico.
L’ALLENATORE – Arrivato nell’ottobre 2016 a Riyad, Ramon Díaz aveva un compito molto pesante: sostituire Gustavo Matosas. Il tecnico uruguagio non ha avuto un grande impatto sull’ambiente e non ha portato risultati, ma il suo carisma rischiava di mancare una volta lasciata la panchina dell’Al-Hilal. Don Ramon ha preso la squadra quasi a metà stagione e l’ha condotta al titolo, altro obiettivo non scontato visto che in quel periodo il tecnico argentino arrivava da due avventure finite male (River Plate e Paraguay). Díaz ha proposto subito la sua idea di calcio speculativa, posta principalmente ad esaltare le individualità in proprio possesso. Col passare del tempo la squadra ha preso confidenza e iniziato anche a sciorinare un gioco più che discreto. Il capolavoro, oltre al campionato vinto subentrando in corsa, è stata la semifinale di andata contro il Persepolis: il 4-0 col quale ha annichilato gli iraniani non è passato inosservato, ed è stato lo stesso Díaz a spiegare nel post partita che l’avversario era stato studiato in ogni minimo particolare, visto che era già stato affrontato due volte. Un personaggio particolare che è riuscito a farsi ben volere anche in un paese mentalmente chiuso: questo è Ramon Díaz. Che – dopo aver conquistato il Sudamerica nel 1996 con la Libertadores al River Plate – è pronto ad imporsi anche in Asia.
LA SQUADRA – Il Pelado propone il suo 4-3-3 ormai storico marchio di fabbrica. Il gioco gira tutto attorno all’estroso brasiliano Carlos Eduardo, che spesso parte da esterno destro per svariare poi su tutto il fronte offensivo. Nonostante ci sia la possibilità di utilizzare sei giocatori stranieri, il tecnico argentino propone quasi sempre almeno otto giocatori locali tra i titolari, con la sola eccezione – oltre del già citato Carlos Eduardo – del centrocampista Milesi e della punta siriana Omar Khribin, entrambi elementi preziosissimi. Davanti al portiere Al Maiouf, che ha preso il posto di Al-Habsi, agiscono Hawsawi ed Al Hafith, due centrali fisicamente prestanti e non troppo veloci, che però si completano abbastanza bene. Anche i due terzini (Al Burayk ed Al Sharhani, quest’ultimo molto talentuoso) sono sauditi, ed il motivo di tale scelta è ovvio: la facilità di coordinarsi parlando la stessa lingua.
In mezzo, oltre a Milesi, giocano Otayf – assente nella finale di andata per squalifica – e Al-Faraj, mezzala brava negli inserimenti. Il terzo davanti lo fa Al Dawsari, peperino mancino che ha tolto il posto all’uruguayano Matias Britos, uno degli acquisti economicamente più impegnativi di sempre della società.
LA STELLA – Il filo conduttore che lega la fase a gruppi con quella ad eliminazione diretta si chiama Carlos Eduardo, che nella prima parte di torneo ha realizzato solo tre gol, diventando l’assoluto protagonista col passare dei match. I suoi quattro gol tra ottavi e quarti di finale sono stati fondamentali per la scalata alla semifinale, dove nel match di ritorno il brasiliano ha servito due assist al bacio ad Omar Khribin.
Nato a Ribeirão Preto, San Paolo, nel 1989, è approdato in Europa nel 2011 per giocare con l’Estoril. Sempre in Portogallo si è poi affermato con la maglia del Porto, ma è in Francia ad aver giocato la sua miglior stagione in carriera. A Nizza ha segnato 10 gol in 30 partite, scegliendo poi un po’ a sorpresa i petrol-dollari dell’Al-Hilal, club col quale ha già vinto quattro titoli.