Scendendo dalla S-Bahn in una giornata assolata, oziosamente intenti a percorrere a piedi il percorso verso l’Olympiastadion, è praticamente certo sbatter la testa contro il peso della storia. E no, non solo per l’Hertha, che dal 1963 ha casa qui dopo aver lasciato l’originario quartiere di Gesundbrunnen. Certo, il ritmo incalzante degli adesivi e dei graffiti aumenta esponenzialmente la sua ricorrenza col tragitto, immergendoti in un unicum di emozioni tra loro contrastanti, ma complessivamente ho maturato la sensazione che si trattasse in qualche modo di una preparazione graduale all’iniziazione vera e propria. Quella del cortile dinanzi all’Olympiastadion, solitamente pieno di tifosi biancoblù birre alla mano e sciarpe al collo: l’ariosità della piazzata da fa capolino tra le colonne progettate anch’esse da Werner March, Jesse Owens è uno spettro che attanaglia le notti pallidamente ariane di Adolf Hitler, la purezza della perfezione paga dazio alla modernità. Innegabile, e non solo perché durante la mia visita l’ex Deutsches Stadion sapeva di arancione per via della concomitanza con gli Europei d’Atletica.
Sebbene l’ostruzionismo dell’iconico – ma forse abusato – Checkpoint Charlie, c’è di vero che l’Hertha attirava il pubblico anche dall’altra parte, quella orientale, tanto che essendo la squadra della capitale i cittadini berlinesi dell’altro lato godevano di uno speciale permesso per oltrepassare la frontiera – chiaramente, pagando – che sfruttavano pesantemente pur di poter recarsi allo stadio a vedere le gare della loro squadra. Eretto il muro nel 1961, emerse ancor maggiore la difficoltà di poter tifare una squadra così vicina, e con essa ecco anche i problemi calcistici del caso: all’Hertha furono interdette le trasferte, anche solo nella Germania Est, così da costringere il club a iscriversi nel 1950 all’Oberliga Berlin, uno dei cinque tornei di allora riservati al calcio teutonico della Germania Ovest (e comunque l’Oberliga sarebbe durata dal 1946 al ’63). Per i pochi tifosi che s’accontentavano di vivere la delirante situazione di non poter supportare dal vivo la propria squadra, il destino avrebbe regalato una serata di gala: 11 novembre 1989, trasferta a Monaco di Baviera e 10mila tifosi dell’Hertha ad accompagnare i giocatori. Un dimostrazione d’affetto che ancor oggi campeggia nei ricordi dei tifosi più accaniti, quelli per i quali la domenica era sintomo di ugole sforzate a furia di “Ha-Ho-He, Hertha BSC” cantati nel Westend della capitale tedesca.
Nato nel 1892 in circostanze curiose, secondo alcune teorie il club prese il nome da Nerheus, etimologicamente dea della fertilità nella mitologia germanica e traslitterato in Hertha. Allo stesso modo, uno dei quattro giovani fondatori del club, tutti diciassettenni, era appena tornato da una gita in battello sul fiume Havel, il secondo per importanza dopo lo Sprea, e il fumaiolo biancoblù della nave a vapore è il motivo dell’adozione di quei colori sociali. Stando ad altre ricostruzioni, Hertha sarebbe stato il nome del piroscafo guidato dal padre di uno dei quattro ragazzi, i gemelli Lindner – Fritz e Max – e i due Lorenz – Otto e Willi. Malgrado attriti iniziali, crescite improvvise ed altrettanto repentini abbandoni, la sezione calcistica avrebbe visto alti e bassi. Il rischio di un fallimento del progetto Hertha era concreto ma fu sventato, così da far passare il club anche sotto il tunnel della guerra.
Così oggi l’Hertha non è l’unica squadra di Berlino (oltre all’Union ci sono pure BFC Germania 88, TeBe Berlin, Dinamo Berlino, Berlin Athletik Klub 07 e SV Blau-Weiß Berlin), ma è certamente quella che ha segnato la storia cittadina più di ogni altra. Graffiti, costante presenza pure nel Mitte, l’occhio di un colossale Grande Fratello pronto a spiare in ogni circostanza: presso l’incantevole reggia di Charlottenburg, avvicinandosi alla Bandenburger Tor, la porta simbolo di Berlino per il mondo, ma pure percorrendo l’Unter den Linden – “sotto i tigli” – fino a raggiungere l’isola dei musei, con tanto di Pergamon e Neues, Nefertiti e la colossale porta di Ishtar. Tutti scatti scalfiti da un occhio particolare per chi vive di calcio e respira l’Hertha.
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