“Budeš chybět, Malý Mozarte”. Ci mancherai, piccolo Mozart. E’ tutto racchiuso in una fanciullezza mai nascosta, l’elogio di commiato che un intero paese, la Repubblica Ceca, ha tributato a una delle sue stelle più luminescenti. Un 37enne che sul campo era incensato con l’aura imperfetta di chi è stato dotato di una tecnica unica nel suo genere ma insieme a questa ha avuto la sfortuna di possedere un fisico di cristallo. Una sorta di rivisitazione calcistica del ruolo che su un palcoscenico teatrale s’addice alla miglior Cassandra. “Il piccolo Mozart” è più di un semplice complimento, specie per chi vi scrive, il quale ha avuto la fortuna di visitare Praga in tutta la sua interezza. Ci sono i soliti must: il pittoresco Malá Strana, Karlův most, san Vito, san Venceslao, la Casa danzante, il vicolo d’oro, il vecchio cimitero ebraico. Accompagnano il ritratto il Muro di Lennon e, per gli amanti del genere, l’imponente Karlovy lázně, epicentro della vita notturna di una città che non dorme mai. Il culto del pallone è evidente: la Generali Arena, alias Stadion Letná, è uno stadio che i tifosi di Lazio e Inter ricorderanno bene. Ci sono Sparta, Slavia, Dukla, Bohemians e Viktoria Žižkov: cinque anime di un’unica entità. La letteratura ha qui forgiato le parole di Franz Kafka, il cielo nuvoloso e le campagne monotone che circondano la capitale ceca sono invece il paesaggio principale che fa da sfondo ai sublimi tocchi del maestro, Tomáš Rosický. Connubio inscindibile, Praga e il suo maestro d’orchestra.
Piccolo Mozart non a caso, visto che la sua abilità di dirigere lo spartito collettivo in mezzo al campo gli sarebbe stata riconosciuta con un appellativo che sa di incoronazione. “Un playmaker solido”, ama invece definirsi il personaggio in questione, capelli pettinati e l’aria di uno dei Beatles, dunque ben lungi dal prototipo di centrocampista aggressivo che tutti noi abbiamo più o meno in mente. La sua tecnica e il suo sharp passing furono tra i tratti che Arsène Wenger elogiava spesso, parlando di Rosický, mentre ne elogiava il talento. Techinically top class, chiosavano i giornali. Eppure Tomáš era semplicemente un prodigio, figlio dei campi di sabbia e asfalto dai quali aveva appreso la più sottile tecnica, nella Praga allora culla del comunismo. Sembra una banalità, ma in un contesto di quel genere valeva molto l’influenza calcistica sovietica: l’importante era il fisico, in altri termini. Ciononostante, a 18 anni era già stabilmente in prima squadra e contava già un campionato vinto, il primo di tre titoli in patria. La Champions League, Euro 2000, il trasferimento a Dortmund per 25 milioni di marchi, cifra record: tutto questo racchiuso in un professionista low profile. Ed è per questo che oggi, quando Rosický ha annunciato il suo ritiro, a salutarlo ci sono proprio tutti. C’è l’Arsenal (“We will miss you on the pitch”), c’è Rio Mavuba, c’è Nuri Sahin, c’è Petr Čech che in boemo s’è detto onorato di aver giocato con lui, c’è la sua controfigura tedesca Mesut Özil. “Alles Gute, Schnitzel”, lo saluta il Borussia Dortmund ricordandogli il soprannome di “scoiattolo” e rimpiangendo nostalgicamente il 2002, quando Rosický e il connazionale Jan Koller si laurearono campioni in Bundesliga. Non solo ex squadre, tra chi saluta Tomáš, ma pure i rivale come il Viktoria Plzeň non sono riusciti a restare impassibile. “Bylo mi ctí Tome….#legenda” ha infine twittato David Holoubek, che fino a marzo aveva allenato il numero 10.
“Tomas Rosicky retires. A career cruelly gutted by injuries, but still one of the most best Arsenal players of recent times” sentenziano da oltremanica, con una lacrima di quelle che solcano il viso. Londra, in quanto culla dell’Arsenal, si ferma per salutare il ceco e ricorda i tempi in cui Arsène Wenger affermava convinto “Quando ami il calcio, ami Rosický”. Il tecnico alsaziano avrebbe poi ripetuto la stessa frase utilizzando Leo Messi come complemento oggetto, ma l’ambiente in stile Fever Pitch ha ormai fissato The Little Mozart nella storia. Nick Hornby a parte, nelle intenzioni iniziali sarebbe dovuto chiamarsi Jan, in onore di Palach. Eppure la storia ha fatto trapelare che il signor Jirí sarebbe stato costretto dalla moglie a scegliere un più tenue Tomáš, in ricordo del bisnonno. Jirí era un difensore, militava nei Bohemians, e aveva già dato il suo nome al figlio precedentemente nato. Ma chi avrebbe detto che il piccolo Tomáš sarebbe diventato un’icona dei Gunners (246 caps, 28 gol)? Chi avrebbe mai osato pensare ad un giovanotto che avrebbe toccato 105 partite con la nazionale, venendo nominato per tre volte calciatore ceco dell’anno (2001, 2002 e 2006, rompendo la striscia di un tale Pavel Nedvěd)?
La medaglia, però, ha anche un altro lato. Stiramenti muscolari, angine, problemi al tallone d’Achille, rottura di fibre muscolari localizzate qua e là per le gambe, operazioni alle ginocchia, problemi al polpaccio, operazione al tallone d’Achille per il sopracitato problema, fastidi a coscia e inguine, il tutto annaffiato con la triste costante di guai alle ginocchia. La carriera sportiva di Tomáš è un trattato di medicina: un rapido conto mi porta a considerare come siano 564 gli effettivi giorni di stop cui il centrocampista è stato costretto. Volendoli accorpare, vien fuori un anno e mezzo. “Molti giocatori si sarebbero ritirati, ma a me non piace perdere e sono tornato allo Sparta per giocare in Champions League. La mia ambizione è questa: non devo più giocare, ma riportare lo Sparta in alto. Hanno provato a scoraggiarmi, ma la vita è mia, la carriera è mia, la scelta è mia”. In tanti avrebbero anticipato la loro uscita dal mondo del calcio giocato. Rosický no, da buona Sparťanská ikona qual è giustamente dipinto: “Il ritorno in campo è complicato, i fastidi al tendine d’Achille sono una ferita grave e alla mia età ancor di più, considerando il tempo in cui sono stato fuori”. Ciononostante, il 10 settembre era tornato in campo da titolare e capitano, andando in gol dopo 17 minuti.
Era il 30 agosto 2016 quando veniva sancito il ritorno a Praga, dopo 15 anni. Nella stessa estate era terminato l’Europeo al quale aveva partecipato pur rifiutando inizialmente la convocazione spiegando: “Ho ricevuto un messaggio da un ragazzo che era in un campo profughi in Siria, diceva che una delle sue speranze era di vedermi giocare di nuovo, cosa che mi ha commosso. Ho visto quanto il calcio sia tremendamente importante nella vita delle persone, mi ha ispirato a non arrendermi, a continuare a lottare per giocare di nuovo e per non dire addio al calcio seduto su una panchina”. Tutto questo, ovviamente, va però contestualizzato. Rosický tornò per dar man forte ai giovani che avrebbero affrontato la prima competizione con la Česká fotbalová reprezentace, perché una delle prerogative di Tomáš è appunto il voler contribuire alla crescita dei futuri calciatori. E’ con questo spirito che Rosický non si fa timori nel paragonare Patrik Schick a Milan Baroš.
Tutto finito, perché il 20 dicembre è arrivato l’annuncio. Ritiro dal calcio giocato, il momento peggiore perché si vede ripercorrere davanti a un campione come Tomáš la lunga e storica carriera che l’ha contraddistinto. Certo, era chiaro che da qualche anno a questa parte il declino fosse accompagnato da un’anagrafe non più troppo benevola, ma tutti quanti oniricamente parlando speravano di rivivere certe emozioni, certe sinfonie come solo il Piccolo Mozart sapeva strimpellare. Tutto, però, perfettamente ragionato. “Il mio corpo ha da tempo affermato che non vuole continuare, mi ha sempre trascinato la testa ma ora la mia mente si è spenta e non ho alcun motivo per continuare. Avevamo dei piani su come prepararci, col club, ma mi sono reso conto che non volevo e inoltre non ho nemmeno qualcosa da offrire sul campo. Non ho terminato la mia carriera per motivi di salute”. Anche questo è Rosický, una bottiglia di pregiato spumante che quando viene stappata emana bollicine a non finire: “Ho giocato a calcio da quando ho 17 anni, ma non ho mai capito quanto sarei potuto esser bravo. Sono stato privato di un periodo in cui i calciatori sono ai massimi livelli, a volte tra 28 e 30 anni. Però sapevo già cos’era il calcio, prima che m’infortunassi ero all’Arsenal, in posto fantastico, potevo dimostrare a tutti che ero il migliore. Quando sono tornato, recuperando, non era più così bello. Ricordo Arséne Wenger, una volta che ti piace il calcio inglese, non puoi lasciarlo. Prima di tutto, le persone nel club vogliono che tu rimanga”. Non ha rimpianti, Rosický, anzi uno: “L’Europeo in Portogallo, nel 2004, è stato un vero peccato. Avevamo tutto per vincere, dovremmo aver vinto (e invece nella semifinale di Oporto vinse la Grecia, ndr)”. Ma non c’è spazio per i sentimentalismi, ora. Budeš chybět, Tomáš!
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