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Storia del Pallone d’oro: il ’69, Gianni Rivera

Il talento più puro e cristallino del calcio anni ’60 in Italia e forse anche in Europa. Non serviva essere dei giganti, non serviva avere un fisico da super atleta, non serviva avere la corsa di un centometrista quando ai piedi si aveva la classe e l’inventiva di Gianni Rivera. Uno dei primi grandissimi trequartisti della storia, uno che fece parte dei grandi di uno dei ruoli più amati per fantasia ed estro ma più detestati dagli allenatori tatticamente più rigidi. Ci scherzava con lui Gianni Brera tanto da chiamarlo “Abatino” per quei suoi modi di fare sempre restii alla battaglia e dedicati maggiormente al tocco dolce ed elegante. Un grande esteta della palla, l’emblema del Belpaese che si stava riprendendo a livello calcistico dopo i disastrosi anni ’50.
Nacque ad Alessandria nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale e da bambino visse i duri anni della ripartenza. Con il solo stipendio da ferroviere del padre non vi era la possibilità di una vita sfarzosa, ma nonostante ciò Gianni riuscì comunque a passare una buona adolescenza avendo una discreta carriera scolastica. Era lo sport però che lo appassionava più di tutto e dopo aver giocato per varie associazioni giovanili venne portato nell’Alessandria. I grigi allora erano un’ottima realtà che si alternava tra la Serie A e la Serie B e il talento era talmente precoce che si cercarono autorizzazioni speciali per farlo debuttare tra i grandi il primo possibile. L’esordio avvenne a termine del campionato 1958-59 in una sfida contro l’Inter quando ancora non aveva sedici anni. Le grandi squadre si erano mobilitate per questo campioncino piemontese e il più rapido di tutti fu il Milan che ne acquistò immediatamente la metà pur lasciandolo ancora un anno nella città d’origine. L’esborso economico fu di quelli importanti e servì un’ampia manovra di convincimento all’allora presidente Rizzoli che dichiarò:”Ho speso un sacco di soldi per un ragazzino del quale non conosco nemmeno il nome“. Nel secondo anno in Serie A fu titolare inamovibile della squadra allenata da Robotti e a ottobre del 1959 segnò il suo primo gol nel massimo torneo contro la Sampdoria. Le sei reti di fine anno lo elevarono a miglior giovane del campionato ma non bastarono per salvare la squadra che retrocedette e quello fu l’ultimo anno nel massimo campionato nella storia dell’Alessandria. In estate venne convocato in Nazionale per le Olimpiadi di Roma e ben figurò segnando tre gol, uno dei quali al Brasile contribuendo al trionfo per 3-1 sui Verdeoro.

Finita la parentesi olimpica potè così dedicare anima e corpo al Milan. Il salto di livello però si fece sentire e non poco anche perché il tecnico Viani decise di schierarlo nell’insolito ruolo di ala destra. La posizione non era certo delle migliori per un ragazzo tutto classe e tecnica come lui e in molti si iniziarono a domandare se non fosse troppo tenero per il grande calcio. La svolta arrivò però nella stagione seguente con l’approdo in panchina di Nereo Rocco, quello che sarà l’allenatore più importante nella carriera di Rivera. Il triestino era inizialmente restio a dover puntare su questo ragazzino, ma ebbe la grande intuizione di cambiargli il ruolo e posizionarlo come numero dieci dietro alle punte Altafini e Barison. Fu la svolta per Gianni e per il Diavolo che dominò e vinse quel campionato arrivando alla fine con cinque punti di vantaggio sui cugini dell’Inter. A fine torneo riuscì anche ad arrivare a in doppia cifra in quanto a realizzazioni e la Nazionale non fu più solo un sogno. Debuttò in un’amichevole contro il Belgio e in estate venne convocato in Cile per il suo primo Mondiale. Fu un’esperienza importante anche se deludente per entrambe le parti. I tecnici Massa e Ferrari decisero di schierarlo dal primo minuto nella gara d’esordio contro la Germania Ovest per poi lasciarlo in panchina contro il Cile e Svizzera.
Nonostante la precoce eliminazione e lo scarso utilizzo, per Rivera era stato un significativo momento di svolta e si apprestò così a vivere la tanto attesa e desiderata Coppa dei Campioni. Il Milan ebbe un andamento fantastico e l’allessandrino segnò il suo primo gol nel torneo al debutto contro l’Union Luxembourg e trascinò a suon di assist la squadra fino alla finale di Wembley contro i bicampioni in carica del Benfica. In pochi davano speranze di vittoria ai rossoneri e quando il fenomeno portoghese Eusébio portò in vantaggio le Aquile nessuno si stupì più di tanto. Nella ripresa però salì in cattedra Gianni Rivera che iniziò a disegnare calcio. Fu l’uomo d’ordine e delle ripartenze per il Diavolo e dopo l’1-1 fu decisivo per il raddoppio. Dopo aver soffiato la palla a Raúl Machado sulla trequarti lanciò immediatamente Altafini che si involò verso l’area di rigore e infilò Costa Pereira per il 2-1 che voleva dire Coppa dei Campioni. Era la prima volta che una squadra italiana riusciva in una tale impresa ed era la prima volta che il trofeo usciva dalla pensiola iberica. A pochi mesi dai vent’anni il numero dieci piemontese era diventato uno dei più grandi giocatori al mondo. Il suo status inoltre si elevò ancora di più quando nel maggio 1963 nella sua San Siro l’Italia travolse il Brasile di Pelé per 3-0 giocando una partita ai limiti della perfezione. Dopo la vittoria in campo continentale iniziarono anni duri per il Milan perché erano i vicini di casa dell’Inter a dominare in Italia e nel mondo lasciando al Diavolo solo qualche piazzamento d’onore. Rivera intanto divenne sempre più influente all’interno della Nazionale tanto che si scagliò pesantemente contro il modo di giocare del tecnico Fabbri considerato troppo catenacciaro. Nel 1966 partecipò al Mondiale in Inghilterra non più come una giovane promessa, ma come una delle grandi stelle della competizione ma il percorso degli Azzurri fu disastroso. Dopo aver liquidato per 2-0 il Cile all’esordio venne fatto un ampio, forse eccessivo, turn over nella seconda partita contro l’Unione Sovietica che vide coinvolto anche il talento rossonero che rimase in panchina. La sconfitta obbligava l’Italia a battere la Corea del Nord nell’ultima sfida del girone, ma il portiere Li Chan-Myung divenne insuperabile e con parate sensazionali, una delle quali anche su un magnifico sinistro da fuori area di Rivera, condannò la Nazionale a un’umiliante sconfitta. Ad accogliere i giocatori rientrati dalla spedizione ci furono solo insulti e pomodori.

L’avventura in terra inglese era da dimenticare il prima possibile ma l’arrivo sulla panchina del Milan di Arturo Silvestri non fu dei più felici. Il tecnico riuscì però a esaltare le doti offensive dell’Abatino che visse una delle sue migliori stagioni dal punto di vista realizzativo, ben dodici gol, ma la squadra concluse mestamente all’ottavo posto. A salvare parzialmente l’annata però ci fu il successo in Coppa Italia in finale contro il Padova che ridiede speranza al popolo rossonero. Ad aumentare ancora di più questa sensazione fu l’annuncio in estate del ritorno in panchina di Rocco e il 1968 fu un anno da incorniciare. Il Diavolo, perfettamente guidato in panchina dal friulano e in campo dal piemontese, che andò a segno per undici volte, annientò il campionato vincendo con un distacco di nove punti sul Napoli secondo. Era il nono Scudetto della storia rossonera, ma la Serie A non fece dimenticare gli impegni europei. Dopo una grande cavalcata la squadra arrivò in finale di Coppa delle Coppe e una doppietta di Hamrin stese l’Amburgo portando così in bacheca un altro trofeo internazionale. Rivera era al massimo della forma e nel pieno della sua maturità calcistica e in estate l’Europeo avrebbe dovuto consacrarlo definitivamente ma la sua sfortuna ci vide benissimo. Partì titolare nella benevola semifinale contro l’Unione Sovietica, ma la dura sfida di Napoli si concluse con un suo infortunio che non gli permise di giocare le due sfide decisive contro la Jugoslavia. Nonostante la sua assenza l’Italia alzò al cielo di Roma il titolo di miglior squadra del continente e anche Rivera potè così festeggiare. La delusione per non esserci stato nel momento cruciale fu tanta e nella stagione 1968-69 dedicò anima e corpo alla vittoria della sua seconda Coppa dei Campioni. Gianni arretrò sensibilmente il proprio raggio d’azione, tanto che segnò solo tre reti in Serie A, ma così facendo permise a Prati e Sormani di realizzare enormi quantità di gol. Nella finale di Madrid contro l’Ajax il ragazzo di Alessandria giocò la miglior partita in carriera dispensando due meravigliosi assist per i suoi attaccanti. Il lombardo segnò di testa dopo che il suo Capitano scartò tutta la difesa olandese, mentre l’argentino scagliò un terrificante destro da fuori area dopo un dolce e inatteso passaggio di tacco. Il 4-1 fu una mazzata per i Lancieri e un trionfo per il Milan e per Rivera che si era spinto a vette mai toccate in passato, ma mancava ancora qualcosa. Nel ’63 la Coppa Intercontinentale era sfuggita, ma la storia non doveva ripetersi. Dopo due vere e proprie battaglie con l’Estudiantes il Diavolo riuscì a laurearsi campione del mondo e l’Abatino segnò una grandissima rete nel ritorno in Argentina nonostante il tentativo di omicidio del portiere Poletti. A fine anno France Football fu in dubbio su quale italiano premiare, ma alla fine fu il Capitano rossonero a trionfare con ottantatre voti contro i settantanove di Gigi Riva e i trentotto di Gerd Müller.

Il premio però lo portò all’inizio del nuovo decennio e dei tanto turbolenti anni ’70. Con Fabbri, nonostante varie critiche, era un titolare inamovibile ma con Valcareggi le cose cambiarono. Con l’esplosione di grandi bomber come Riva, Boninsegna e Anastasi riteneva inutile schierare Mazzola nel ruolo di centravanti e così nacque la staffetta tra il milanista e l’interista per il ruolo di ispiratore delle punte. Questo dualismo scoppiò definitivamente quando si alzò la posta al Mondiale in Messico nel 1970. Il figlio d’arte del grande Valentino era considerato forse meno fantasiosa, pur avendo sempre un enorme talento, ma molto più disciplinato tatticamente e nelle gare del girone il Pallone d’oro in carica giocò solo il secondo tempo della sfida contro Israele. Gli Azzurri passarono il primo turno per la prima volta nel dopoguerra ma l’altura iniziò a creare problemi ai giocatori. Mazzola venne colpito da un attacco intestinale che mise a rischio la sua presenza contro il Messico e di comune accordo con Valcareggi si decise di fargli giocare solo un tempo. Con il nerazzurro non al meglio il primo tempo si concluse 1-1, ma con l’ingresso del rossonero la musica cambiò. Rivera cambiò il volto della partita servendo a Riva due palle meravigliose che il centravanti del Cagliari trasformò in oro e dopo un’interminabile azione fu proprio l’alessandrino di destro a battere Calderón segnando così la prima rete in Coppa del Mondo. La staffetta era dunque nata per necessità, ma venne a sorpresa ripetuta in occasione della storica semifinale contro la Germania Ovest. Una partita leggendaria ricchissima di colpi di scena e in un minuto la vita di Gianni si ribaltò. Con l’Italia avanti per 3-2 si mise sul palo della propria porta per difendere un calcio d’angolo e Müller trovò lo spiraglio giusto proprio facendo passare la palla tra la sua gamba e il legno. Albertosi era furioso per il pareggio, ma giusto il tempo di rimettere la sfera al centro che Rivera si fece perdonare. Da un lancio di Facchetti fu Boninsegna a sgroppare sulla sinistra e a servire al centro il numero quattordici Azzurro che di piatto destro incrociò spiazzando Maier per il definitivo e storico 4-3. In soli sessanta secondi era passato da Abatino timido e senza grinta a campione in grado di risolvere una delle partite più importanti della storia della Nazionale. Fu l’ultima volta della staffetta perché in finale scese in campo solo a sei minuti dalla fine per motivi ancora oggi pochi chiari e il Brasile stravinse per 4-1. La scelta di lasciare fuori per quasi tutta la partita il milanista fece insorgere ancora una volta il popolo italiano che diede degli incompetenti ad allenatore e dirigenti.
Questa presa di posizione da parte della gente testimoniava il grande valore di Rivera ma lo portò probabilmente a esaltarsi troppo negli anni a venire. Con il Milan che sprofondò quasi sempre nell’anonimato del centro classifica ricevette tre mesi e mezzo di squalifica nel 1972 per pesanti insinuazioni nei confronti della classe arbitrale. Rientrato dalla squalifica visse un’ultima straordinaria annata nel 1972-73 dove vinse con il Diavolo in finale contro il Leeds la sua seconda Coppa delle Coppe e in campionato stabilì il suo record assoluto di marcature arrivando a quota diciassette e laureandosi capocannoniere. Sembrava tutto fatto anche per lo Scudetto della stella, ma nell’ultima giornata Verona divenne Fatale e il 5-3 dei gialloblu fece sorridere la Juventus che vinse a Roma contro i giallorossi e strappò ai rossoneri un titolo che sembrava già vinto. Nel 1974 disputò il suo quarto e ultimo Mondiale ma la spedizione tedesca fu disastrosa. Il clima infuocato all’interno del clan Azzurro portò a una triste eliminazione al primo turno e per Gianni ci fu la consolazione di aver segnato nell’esordio contro Haiti e di non esser sceso in campo nella decisiva e disastrosa terza gara contro la Polonia. Il Milan intanto continuava a stare ben lontano dalle zone alte della classifica rischiando addirittura di retrocedere nella stagione 1976-77. L’età ormai iniziava a creargli non pochi problemi fisici ma Nils Liedholm lo convinse a rimanere ancora per il 1978-79 e nonostante giocò solo tredici partite riuscì a vincere il suo terzo Scudetto in carriera. Fu storico il suo discorso in occasione della partita decisiva contro il Bologna con un San Siro pieno come non mai. L’enorme flusso di gente rischiò di far vincere la sfida a tavolino agli emiliani, ma Rivera prese il microfono e da grande oratore riuscì a riportare la calma. Fu il suo primo grande comizio con il quale si congedò dal calcio per darsi alla politica.
Un campione tutto classe e colpi da maestro, in grado di incantare per un gioco dolce ed elegante. La vittoria del cervello sui fisici, perché nel calcio l’importante è che corra la palla. Un campione amato, discusso, contestato, ma mai banale, un campione come pochi se ne sono visti nella storia, un campione come Gianni Rivera.

Francesco Domenighini

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