Un attaccante a tutto campo, uno dei più grandi nella storia del Manchester United e uno dei primi a rendere grandioso il nome dei Red Deviles in giro per il mondo. Una capigliatura e un modo di stare in campo sempre da veterano con una saggezza tattica e comunicativa di prim’ordine che gli permisero di arrivare al titolo di baronetto. Perché Bobby Charlton, anzi Sir Bobby Charlton, è stato probabilmente il primo grande giocatore galantuomo del calcio inglese. In un periodo dove i calciatori venivano quasi esclusivamente dal più basso proletariato fece sempre vedere gli insegnamenti della mamma profesoressa Elizabeth. Il rispetto per l’avversario era infatti alla base del suo modo di giocare e i soli due cartellini gialli in carriera ne sono la testimonianza più lampante.
Nato ad Ashington nel nord della nazione visse duramente gli anni dell’infanzia causa lo svolgimento del secondo conflitto mondiale, ma riuscì comunque a passare una prima adolescenza più che dignitosa sviluppando così la sua passione per il calcio. Quando aveva l’età di sedici anni fu Joe Armstrong ad accorgersi di lui e a volerlo portare al Manchester United e, una volta che si riuscì a convincere la madre, Bobby partì per l’Old Trafford. Divenne il più famoso dei “Busby Babes” una serie di ragazzi di grande talento formati dal tecnico che avrebbe costruito una delle migliori squadre di sempre. A diciannove anni debuttò in prima squadra contro il Charlton e nell’annata 1956-57 riuscì a ritagliarsi un buono spazio mantendo una media gol altissima, dieci reti in quattordici apparizioni. Al primo anno da professionista Bobby era riuscito a laurearsi campione d’Inghilterra contribuendo alla vittoria e in quella stagione aveva anche debuttato in Coppa dei Campioni segnando subito contro il Real Madrid all’Old Trafford, ma il 2-2 finale eliminò i Red Deviles. Lo United era tra le grandi favorite del torneo nella stagione seguente e poteva essere la prima squadra a fermare i Blancos di Di Stéfano. Nei quarti di finale gli inglesi dovettero affrontare gli insidiosi jugoslavi della Stella Rossa, squadra che sapeva abbinare a una discreta fisicità un’ottima tecnica. Bobby Charlton fu assoluto protagonista nella doppia sfida e dopo aver segnato una rete nel 2-1 di Manchester realizzò addirittura due gol nel 3-3 di Belgrado che mandò così i ragazzi di Busby in semifinale. Ci sarebbe stato solo che da festeggiare se non ci fosse stata una terribile bufera su tutta Europa che costrinse l’aereo che avrebbe dovuto riportare la squadra indietro a fermarsi a Monaco di Baviera. Il pilota James Thain però non voleva sostare troppo in Germania Ovest e così provò per tre volte a decollare, ma l’ultima fu fatale. Il veicolo perse velocità e precipitò da un’altezza tale da non risultare catastrofica, come per il Grande Torino qualche anno prima, ma ebbe conseguenze disastrose. L’impatto fu molto violento e dei quarantaquattro passeggeri persero la vita ben ventitre di essi. Geoff Bent, Roger Byrne, Eddie Colman, Duncan Edwards (terzo al Pallone d’oro 1957), Mark Jones, David Pegg, Tommy Taylor (ottavo al Pallone d’oro 1957) e Liam Whelan non riuscirono più a risvegliarsi dopo quel maledetto impatto. Bobby Charlton ne uscì vivo, profondamente ferito e sconvolto, ma ancora in grado non solo di respirare ma anche di camminare con le proprie gambe e di poter continuare a giocare a calcio.
Da allora lui e il portiere nordirlandese Gregg si presero in spalle una squadra giovanissima formata da tanti ragazzi che non si aspettavano certamente di essere buttati nella mischia dal nulla all’interno di una delle quattro squadre più forti d’Europa. Furono anni duri e di ricostruzione per il Manchester United perché gente come Edwards, Taylor e Whelan era difficile da sostituire. Il 1958 fu però per Bobby Charlton anche quello del debutto in nazionale, andando subito in rete a Glasgow contro la Scozia, e del suo primo Mondiale, anche se in Svezia fu solo tra i convocati senza mai scendere in campo. Nel campionato seguente la voglia di dimenticare la tragedia di Monaco fu tale da fargli vivere un’annata strepitosa conclusa con il pazzesco record personale, mai più neanche avvicinato, di ventinove reti che portarono il Manchester United a chiudere al secondo posto dietro al Wolverhampton. Per altre due annate continuò a giocare da vero centravanti trovando la via del gol in moltissime occasioni, ma Busby aveva capito che un giocatore così non poteva essere sfruttato solo in zona gol e così arretrò il suo raggio d’azione. In questo modo veniva utilizzato da uomo tuttofare dell’attacco, capace di segnare, sfruttare al meglio la sua grande abilità nel dribbling in velocità e mettendosi a servizio dello scozzese David Herd.
I risultati faticavano ad arrivare e i Diavoli Rossi erano scesi nei bassifondi della classifica, ma nessuno dubitava del talento di Charlton che venne convocato in Cile per il suo secondo Mondiale, ma questa giocò sempre. Nella seconda gara del girone contro l’Argentina trovò anche il suo primo gol in questa competizione, ma nei quarti di finale c’era il Brasile di Garrincha e con un pesante 3-1 l’avventura dei Tre Leoni finì anzitempo. Intanto in quell’estate dal Torino era tornato in Gran Bretagna un altro scozzese, Denis Law e dalle giovanili stava sbocciando il talento di un nordirlandese tanto bello quanto dannato, George Best. Era l’inizio di una vera era per il Manchester United. Il campionato 1962-63 fu sempre nelle retrovie, con il diciannovesimo posto finale che ben spiega l’andazzo dalle parti di Old Trafford, ma a fine anno la squadra tornò a vincere e quell’Fa Cup fu una vera e propria boccata di aria fresca. Fu l’inizio di una rinascita e dopo il secondo posto del 1964 ecco il successo l’anno dopo del titolo di campioni d’Inghilterra. I “Busby Babes” erano tornati più forti e carichi che mai. Il 1966 fu un anno magico per Charlton perché, nonostante il Liverpool riuscì a strappare il trono di campione allo United, riuscì a tornare a segnare con una certa continuità arrivando a quota sedici centri e poi quello era l’anno del Mondiale in casa. L’attesa per il torneo era altissima e tantissime erano le squadre favorite ma quelle che alla vigilia venivano considerate le più forti, Italia e Brasile, uscirono mestamente già ai gironi. L’Unione Sovietica di Jashin, il Portogallo di Eusébio, la Germania Ovest di Beckenbauer e l’Inghilterra di Charlton arrivarono in semifinale tutte trascinate dalle strepitose prestazioni dei loro campioni. Dopo aver segnato una fantastica rete nel girone contro il Messico l’apice di Sir Bobby venne toccato nella semifinale contro i lusitani. Con una ribattuta dopo una corta respinta e con un destro secco a incrociare trafisse per due volte José Pereira e a nulla valse la rete della Perla Nera su rigore. I Tre Leoni erano stati trascinati in finale dal loro uomo migliore e a Wembley nulla poteva negargli il primo titolo mondiale. Helmut Schön limitò il raggio di azione di Beckenbauer per metterlo in marcatura stretta su Bobby Charlton e i due finirono per annullarsi, ma a salire in cattedra fu Geoff Hurst che con una tripletta permise al proprio capitano Bobby Moore di alzare il trofeo preso dalle mani della Regina. A ventinove anni il futuro baronetto aveva conquistato il cuore di tutti gli appassionati di calcio del mondo e si era consacrato come mito in grado di rialzarsi dopo la tragedia di Monaco riuscendo a trascinare la sua nazionale alla vittoria del Mondiale. France Football rimase indecisa fino alla fine se premiare l’uomo simbolo dei campioni del mondo o quell’Eusébio che era stato devastante, ma alla fine prevalse l’inglese per ottantun voti a ottanta, mentre Beckenbauer terzo si fermò a cinquantanove.
La voglia di fermarsi e di limitarsi dopo questo premio non sfiorò nemmeno lontanamente la testa di Sir Bobby e nel 1967 fu grande protagonista nella vittoria del suo terzo campionato con il Manchester United, ma mancava ancora un tassello importante alla sua lista di trofei. La Coppa dei Campioni era ancora una chimera per le squadre inglesi ma nel 1968 i Red Deviles riuscirono ad arrivare in finale e contro il Benfica si sarebbe giocato a Wembley. Sarebbe stato ancora una volta Charlton contro Eusébio e la storia si ripetè un’altra volta. Con una dolce deviazione di testa e una magnifico destro a incrociare il numero nove di quella sera segnò una doppietta decisiva nel 4-1 finale riuscendo a laurearsi così anche campione d’Europa per club. In quell’anno provò anche l’assalto al titolo continentale per nazioni, ma a Firenze fu la Jugoslavia a trionfare per 1-0 e ad andare in finale lasciando ai campioni del mondo la magra consolazione del terzo posto dove Charlton segnò contro l’Unione Sovietica.
Dalla stagione seguente qualcosa però si interruppe e quel modo di giocare a tutto campo che lo aveva sempre contraddistinto iniziava a diventare faticoso anche per un campione come lui. Cercò di arrivare al massimo della forma in vista di Messico ’70, ma l’altura condizionò pesantemente le sue prestazioni. Giocò tutte e quattro le sfide ma nella decisiva gara contro la Germania Ovest sparì e quella fu la sua partita d’addio alla maglia dell’Inghilterra con la quale aveva realizzato ben quarantanove gol, solo Wayne Rooney è riuscito a fare meglio. Lo United iniziò a perdere sempre più posizioni in classifica e quando se andò nel 1973 lasciò una squadra alla deriva e allo sbando che l’anno seguente subì l’umiliazione della retrocessione. Giocò ancora un paio di anni al Preston North End, squadra nella quale ricopriva il doppio compito di giocatore-allenatore, prima di passare in Irlanda al Waterford e in Australia al Melbourne Victory dove si ritirò nel 1976.
Il simbolo di una nazionale e di un club che dovevano rinascere, colui che è riuscito a riportarle all’apice. Un baronetto della Regina, per sempre Sir Bobby Charlton.
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