L’eleganza e la perfezione della progressione fatta a calciatore. Non uno scatto potente, non un qualcosa dovuto a un fisico da supereroe, non dettato dall’esigenza di un calcio a tutto campo, ma semplicemente dettato da una tecnica e una capacità di corsa fuori dal comune. Kakà è stato uno dei giocatori più iconici e rappresentantivi della sua epoca, ma sarebbe stato bello vederlo osare un pochino di più per diventare probabilmente uno dei più grandi di tutti i tempi.
Nacque a Gama vicino alla Capitale Brasilia e a differenza di molti suoi connazionali la gioventù di Ricardo non fu tra campi di fango e palloni di stracci, ma passò anni felici. Il padre ingegnere e la madre professoressa di matematica permettevano di non far mai mancare il pane tavola e di mettere l’istruzione come una delle priorità. A soli dodici anni fu costretto però a lasciare la famiglia per trasferirsi al San Paolo e l’occasione per diventare un calciatore professionista venne colta al volo. Il ragazzino ci sapeva fare e la classe non gli mancava ma a diciotto anni rischiò di dire addio per sempre alla sua carriera. Dopo un tuffo in piscina picchiò violentemente la testa sul fondo della stessa provocandogli la frattura della sesta vertebra e fu un miracolo il fatto che non rimase paralizzato. Credette fermamente che fosse stato Dio a salvarlo e da allora si avvicinò sempre di più alla fede Cristiana tanto da diventare un atleta di Cristo. Nella stagione seguente iniziò quindi a giocare con la prima squadra del San Paolo e l’impatto fu devastante. Al debutto nel campionato Paulista segnò subito nell’importantissima sfida contro il Santos e decise la finale di ritorno del Torneo Rio-San Paolo contro il Botafogo segnando una doppietta.
Il mondo iniziava già a parlare di questo ragazzino dai modi di fare gentili e dalla falcata da duecentometrista e a soli vent’anni Felipe Scolari lo convocò per il Mondiale in Corea del Sud e Giappone del 2002. Giocò soltanto la terza e inutile partita del girone contro il Costa Rica, ma tanto bastò per laurearsi campione del mondo. Con fenomeni come Ronaldo, Rivaldo e Ronaldinho nessuno poteva fermare quella squadra e nel futuro più prossimo stava per sbocciare un’altra stella. Rimase ancora al San Paolo e nell’estate del 2003 partecipò alla Gold Cup dove con tre reti e grandi prestazioni trascinò il Brasile fino alla finale persa con il Messico. Ormai il passaggio in Europa era obbligatorio e fu il Milan la squadra che più di tutte credette in lui nonostante avesse in rosa gente come Rui Costa e Rivaldo. Il brasiliano doveva riscattarsi dopo la pessima annata precedente mentre il portoghese viveva il dramma del gol perduto, ancora senza gol con la maglia rossonera dopo due anni in Serie A. Kakà sembrava essere un acquisto in prospettiva, utile per far rifiatare i titolari per poi diventare col tempo un intoccabile. Quando Carlo Ancelotti vide il ragazzino allenarsi con la prima squadra capì immediatamente il valore straordinario di quel giocatore e già dalla prima gara di campionato contro l’Ancona partì da titolare e da allora non uscì più. Contro i marchigiani fu devastante e decisivo per far sì che Shevchenko segnasse i due gol della vittoria. Al Del Conero era nata una stella.
Visse una stagione memorabile e il primo centro in Serie A arrivò in una partita speciale per il popolo rossonero perché nel derby contro l’Inter segnò di testa in una magica notte conclusa con un 1-3 per il Diavolo. In Belgio contro il Brugge arrivò anche la sua prima gioia in quella che sarà per sempre la sua competizione, la Champions League. Un meraviglioso destro di piatto al volo sotto la traversa e la difficile pratica belga venne archiviata. A fine anno vinse subito lo Scudetto e i due volti del titolo di quell’anno si misero assieme per regalare l’immagine della festa. A tre partite dalla fine arrivò a San Siro la Roma seconda che nutriva ancora qualche piccola speranza di successo. Dopo solo un minuto una grandissima giocata di Kaká sulla destra lasciò di sasso Dacourt e un perfetto cross arrivò preciso sulla testa di Shevchenko che segnò il suo ventiduesimo centro in campionato e affermò ancora di più la supremazia del Diavolo. Intanto il crollo di Rivaldo lo portò a diventare un titolare anche della Seleçao e il mondo calcistico si lustrava gli occhi davanti alle sue giocate.
La seconda stagione rossonera però fu di luci e ombre. L’inizio intatti fu abbastanza negativo, i gol diminuirono e vari maligni iniziarono a insinuare che era stato solo un fuoco di paglia. Si dovettero però rimangiare tutto il 25 maggio 2005 in occasione della finale di Champions League tra Milan e Liverpool. Per il popolo rossonero questa sarà sempre una delle partite più tragiche della propria storia, ma nel primo tempo Kaká disputó la miglior partita in carriera. Fu il vero uomo in più per il 3-0 meneghino ed Hernán Crespo lo ringraziò degli assist segnando due reti. Nella ripresa però solo il brasiliano continuò a rimanere sui suoi livelli, mentre i ragazzi di Ancelotti si sciolsero come neve al sole facendosi rimontare e perdendo ai calci di rigore, solo Ricardo e Tomasson segnarono dagli undici metri per il Diavolo.
Lo shock di Istanbul sconvolse completamente l’ambiente del Milan e Kaká si sentiva ormai un veterano e uno dei senatori della squadra nonostante la sua giovane età. Nell’anno più nero del calcio italiano giocò probabilmente la sua migliore stagione segnando reti di rara bellezza come quella al ritorno in Champions League contro il Fenerbahçe. Partendo dal centrocampo scartò tutta la squadra turca prima di lasciar partire un perfetto destro sotto le gambe del portiere. Decise anche la sfida Scudetto di San Siro contro la Juventus giocando una gara eccezionale e segnando con un destro al volo a mezza altezza, ma gli ottantotto punti di fine anno non bastarono per arrivare primi e la semifinale contro l’amico di nazionale Ronaldinho andò al Barcellona. Il 2006 però era anche l’anno del Mondiale e il Brasile era favoritissimo per il bis di quattro anni prima ma il tecnico Parreira avrebbe forse dovuto limitare la fantasia in attacco per un maggiore studio tattico. Adriano, Ronaldo, Ronaldinho e Kaká erano sicuramente quattro grandi campioni, ma era impensabile che la squadra riuscisse a supportare quattro del genere. I Verdeoro passarono gironi e otttavi più per la forza dei singoli che per idee, ma non appena arrivò una squadra organizzata come la Francia la Seleçao venne eliminata. Ricardo iniziò al meglio il suo torneo con un grande gol che decise la sfida con la Croazia ma per il resto anche lui come tutti gli altri finirono per deludere.
Dopo lo scandalo di Calciopoli e la delusione al Mondiale c’era tanta voglia di ripartire e se gli otto punti di penalizzazione in campionato sembravano essere uno scoglio insormontabile i ragazzi di Ancelotti decisero così di puntare tutto sulla Champions League. Il brasiliano fu autentico dominatore del torneo riuscendo addirittura a diventare capocannoniere con perle di rara bellezza. Già nel girone fu l’Anderlecht a dover capitolare a seguito di una sua tripletta, per non parlare della cavalcata nei tempi supplementari che stese il Celtic a San Siro, ma l’apice venne raggiunto nelle due semifinali contro il Manchester United. All’Old Trafford segnò una doppietta pazzesca e in una rete scavalcò Evra e Heinze con un sombrero portando i due difensori a scontrarsi. In Inghilterra però il 3-2 finale premiò i Red Deviles, ma sotto una torrenziale pioggia a Milano si compì la rimonta capolavoro. Dopo soli undici minuti fu proprio un sinistro di Kaká dal limite dell’area a illuminare il Meazza e a dar vita a un magico 3-0 finale che resta una delle più grandi partite di sempre della storia del Milan. Ad Atene ci sarebbe stata la rivincita di due anni prima contro il Liverpool e la gloria dei due gol andò tutta a Pippo Inzaghi, ma il brasiliano gli servì un dolce assist per il raddoppio dopo una partita fatta di immensa classe e anche tanto sacrificio. A fine anno France Football non ebbe dubbi e il numero ventidue rossonero vinse il Pallone d’oro con quattrocentoquarantaquattro voti, contro i soli duecentosettantasette di Cristiano Ronaldo e i duecentocinquantacinque di Lionel Messi.
A venticinque anni era diventato il più grande giocatore del mondo, ma dopo questi riconoscimenti non fu più lui. Timbrò l’ultimo suo grande successo segnando nella finale del Mondiale per Club contro il Boca Juniors, ma si vedeva che non era più lui. Le sue prestazioni divennero molto meno dinamiche e solo la sua immensa classe gli permetteva di essere ancora ammirato e apprezzato. Giocò altri due anni al Milan prima di passare nell’estate del 2009 per oltre sessanta milioni al Real Madrid, ma qui uscì definitivamente allo scoperto il suo problema con la pubalgia. Pellegrini e Mourinho provarono in tutti i modi a farlo tornare quello di un tempo, ma in quattro anni di Liga riuscì a segnare la miseria di ventitre reti e via via perse il posto da titolare, lasciandosi alle spalle un grande rimpianto. Dopo il primo anno al Real Madrid venne convocato per il suo terzo e ultimo Mondiale e Kaká era considerato la stella indiscussa della squadra, ma ancora una volta la Seleçao arrivò solo ai quarti di finale. Ricardo non andò mai a segno e fece vedere veramente il suo valore nella gara del girone contro la Costa d’Avorio prima di sparire nella decisiva partita contro l’Olanda. Dopo gli anni tristi in Spagna tornò dai suoi antichi amori giocando in prestito per il Milan, in una squadra lontana anni luce dallo squadrone del decennio precedente e con la quale otterrà solo un ottavo posto in campionato, e poi al San Paolo prima di farsi corteggiare dai dollari americani dell’Orlando City e chiudere la carriera nel 2017.
Un campione di classe ed eleganza che è durato davvero troppo poco, ma quanta gioia ha regalato in quegli anni Ricardo Izecson dos Santos Leite, per tutti Kaká.
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