Per lungo tempo, la carriera di Sergio Ezequiel Araujo è stata l’apoteosi del “vorrei ma non posso“. Un talento incredibile, una classe sopraffina, una tecnica notevole. E, soprattutto, tanti, tantissimi occhi addosso, l’esser additato come futuro craque, vari paragoni scomodi e un futuro che si preannunciava roseo. Dall’altra parte della medaglia però, il difetto di un carattere fuori dal campo troppo spesso dedito ad eccessi. Non è la prima volta in cui le qualità di un calciatore siano frenate dalla sfrenatezza, e perdonate la dittologia. Si parla di genio e sregolatezza, di yin e di yang, di aspettative sul rettangolo di gioco che purtroppo spesso vengono controbilanciate da fatti di cronaca all’esterno di esso.
E’ la città dei porteños (così chiamati gli abitanti del centro di Baires), ma anche dei bonaerenses della provincia. Storicamente, talvolta governata da regolari elezioni, altre volte teatro di colpi di stato. E’ la città della dittatura militare, ma anche della protesta dei desaparecidos. E’ allo stesso tempo la città fondata da Pedro de Mendoza il 2 febbraio del 1536, ma anche quella risalente al 1580. E, ultimo ma non certamente per importanza, è la città del Superclásico. Boca contro River, i fieri proletari contro los Milionarios, la squadra povera contro quella benestante. Nate entrambe dallo stesso seno (La Boca), ma totalmente incompatibili ed incomparabili. Nella storia, il River vince i campionati ma perde le coppe, il Boca perde i primi ma non si fa scappare le seconde. E poi, è Maradona e Riquelme contro Kempes e Di Stefano. Magia.
Araujo sceglie la prima corrente, quella xeneise, quella della mitad más uno. Debutta il 14 dicembre 2009, sostituendo Gaitan contro il Banfield, ma il suo nome è già nel taccuino di qualche club da prima: è il caso del Genoa, innamoratosi del ragazzo in seguito al Sub17 in Cile nel 2009 (tre reti per lui, ma anche uno dei rigori sbagliati che hanno consegnato il titolo al Brasile). Addirittura pareva che Preziosi volesse immediatamente metter le mani sul giocatore pur essendo disposto ad aspettare la maggior età per portarlo in Italia, e si vociferava di alcuni contatti tra le due società. Era il luglio 2009, il Genoa già era in trattativa col Boca per Palacio, ma alla fine non si fece nulla e il ragazzo è rimasto in Argentina. Il suo scarso utilizzo però (20 presenze in gialloblù: principalmente Araujo era la riserva di Lucas Viatri o Pablo Mouche, anche se con Claudio Borghi avrà più spazio) è tra i motivi che lo hanno convinto a cambiare aria. In realtà qualcosa sembrava cambiare nel novembre 2010, precisamente nel corso del match contro l’Arsenal de Sarandi, quando l’allora tecnico ad interim Roberto Pompei decise di sperimentarlo dall’inizio in tandem con Martin Palermo, quasi eleggendolo a sostituto di quel Palacio sopracitato. Eppure Sergio se ne andrà, precisamente dall’altra parte dell’oceano dove ad aspettarlo, nel 2012, c’era il Barça B. Già nel marzo 2011, comunque, si vociferava anche di un interesse del Siviglia: dopo numerosi sondaggi, ecco che da Nervión era partita un’offerta da 5 milioni di euro, ritenuta sufficiente dalla dirigenza andalusa. Poi però, nessuna conferma da ambo le parti, e dunque l’affaire-Araujo è entrato di diritto nel novero degli affari di fantamercato. Sergio arriva in blaugrana, prende il 22 che prima era sulle spalle di Marti Riverola (qualcuno lo ricorda al Bologna?) e si prepara per due anni, questa la durata del prestito, in cui mostrare il proprio talento in Europa. 800mila euro di prestito, 15 milioni per l’eventuale riscatto: la sola dimensione delle cifre può aiutare a render l’idea delle potenzialità/aspettative/previsioni che pendevano sulla testa di Sergio come una spada di Damocle. Le 7 reti in 34 partite coi blaugrana gettano una massiccia dose d’acqua sul fuoco divampato intorno al ragazzo e alle sue qualità, tant’è vero che nel giugno 2013 il Barça non lo considera pronto e lo rispedisce a La Boca. Dove però c’è Carlos Bianchi, non proprio un estimatore di Araujo, e dunque quest’ultimo viene spedito per la stagione 2013/14 in prestito al Tigre: anche qui però il suo talento pare non voler venir fuori, e col numero 7 entra solo 4 volte nel tabellino dei marcatori nonostante una certa continuità (23 partite).
Alla stagione 2014-15 Araujo si presenta ai nastri di partenza con un gran biglietto da visita: sceglie il 10, vuole sentire il peso del Diez sulle spalle, è intenzionato a caricarsi la squadra in spalla e portarla a destinazione. E ci riesce: ricambia l’affetto dei nuovi tifosi con 5 reti nelle prime 4 giornate, attira su di sé gli occhi della stampa (qui la prova) e a maggio sarà il vicecapocannoniere del campionato con 23 marcature (pari merito con Borja Baston del Saragozza, davanti solo Ruben Castro a quota 32). In più, l’intera rosa sembrava finalmente arrivata all’appuntamento con la storia: dalla 12° alla 28° sempre nelle prime due posizioni, poi una flessione non ha cambiato di troppo l’andamento del Las Palmas terminato al quarto posto, il che voleva dire playoff. Per il terzo anno consecutivo. L’andata contro il Valladolid termina 1-1: segna Araujo al 9′, pareggia Perez al 23′. Il ritorno sull’isola è vissuto con l’ansia di chi aveva vissuto l’anno prima la beffa più cocente: fortunatamente, nessun nuovo Davila si prende la scena, finisce 0-0 e la finale palyoff è assicurata. C’era però la pratica Saragozza da sistemare. L’andata a La Romareda è un fracaso inexplicable: ospiti avanti grazie ad un’azione orchestrata da Araujo, e chi sennò, e finalizzata ottimamente da Jonathan Viera (19′), poi secondo tempo di matrice aragonese e Las Palmas crollato sotto i colpi di Rico (39′), Pedro (47′) e Willian José (75′). Al ritorno, sebbene le speranze fossero ridotte al lumicino, ecco la prova di forza che l’afición dell’UD avrebbe voluto. Un match ottimamente preparato dal sagace Paco Herrera (che l’anno prima era stato cacciato proprio da Zaragoza), una final del ascenso senza storia. Solo padroni di casa in campo: probabilmente los Blanquillos di Popovic hanno gettato via la promozione sul piano psicologico ancor più che su quello fisico. E allora, ecco 90′ interamente dominati da Roque Mesa e compagni: un 4-1-4-1 tremendamente efficace, Culio e Asdrúbal imprendibili, il Diez Araujo nei panni di un folletto imprendibile. La prima rete, realizzata dal sopracitato centrocampista al 33′, è stata portata avanti anche dall’argentino. Poi, tanta sofferenza, tantissime occasioni (Aythami, Culio, poi due volte Viera, nuovamente Aythami e capitan David Garcia) e un punteggio sempre in bilico. Di marcature, ne serviva un’altra per coronare il sogno chiamato Liga. Minuto 84: punizione interessante per il Las Palmas, pallone che si impenna, Aythami quasi sulla linea di fondo si inventa una chilena e rispedisce la sfera sul palo opposto dove la sorte, che questa volta aveva le sembianze de El Chino, si è fatta trovar pronta. Di chi poteva essere, se non di Araujo, la firma sul ritorno in Liga dei canarini? Di chi, se non il Diez, la pennellata finale a compimento di un quadro capolavoro? Chi, se non l’autore del 24 centro stagionale, la punta di diamante nel 4-2-1-3 di Paco Herrera? E soprattutto, in che modo avrebbe potuto prendersi la scena in una serata che lo aveva visto in versione fantasista piuttosto che finalizzatore? (Ah, dimenticavo, gli erano state annullate due reti)
“El Chino”, letteralmente “il cinese”, è un soprannome che su Internet troverete affibbiato ad un paio di persone, Sergio a parte (il motivo sta negli occhi a mandorla). In primo luogo José Rodrigo Aréchiga Gamboa, boss messicano del narcotraffico, poi i vari Álvaro Recoba e David Silva. Proprio a Silva, che deve il nickname alle sue origini giapponesi, si può paragonare Araujo in quanto ad estro. L’attuale fantasista del City nasce ad Arguineguín, villaggio di pescatori con ampia popolazione norvegese (tanto da esserci, nel paesino del comune di Mogán, una scuola, una chiesa ed un centro medico norvegesi) e nemmeno troppo frequentato da turisti. E’ un ideale microcosmo per chi ha la passione per il fútbol: non a caso, il posto è noto per aver dato i natali anche ad Aythami Artiles e tale Juan Carlos Valerón (che al Las Palmas ha giocato ad inizio e fine della carriera: ritiratosi a giugno del 2016, ha condiviso lo spogliatoio con Araujo per due stagioni). Perdonate quello che sto per scrivere, ma l’occasione è propizia per fare una breve digressione sul calcio canario. In un bel pezzo citato tra l’altro anche da Valentino Tola in UltimoUomo (eccolo), si fa riferimento a Toni Ruiz, che nel 2013 lavorava come preparatore atletico e vice di José Luis Mendilibar all’Osasuna. “En Canarias, desde que eres pequeño, si no eres estético, si no eres técnico, parece que quedas señalado”. La semplicità disarmante con cui “se non sei estetico, se non sei tecnico, sembra che ti prendano di mira” contraddistingue da sempre il movimento calcistico locale. Del resto, a Las Palmas de Gran Canaria, in tempi recenti hanno visto giocare, in rigoroso ordine sparso, Vitolo, Rubén Castro, Jesé e Sandro Ramirez. Un movimento calcistico così florido, oltre che espressione dell’amore per il calcio di questa terra, è anche motivo d’orgoglio se comparato alla piccolezza di un territorio (poco più di 1,4 km quadrati) politicamente spagnolo ma vicinissimo alle coste africane. E a far da cornice a tutto ciò, un clima che “en Canarias te permite jugar en la calle once meses, por no decirte los doce. Además, todavía se sigue jugando en las plazas o en la playa, que es lo que hace que el futbolista canario sea técnicamente muy bueno”. Calcio di quartiere, dunque, talenti scoperti tra le spiagge dell’isola. A patto però di nascere da Valerón o da David Silva. Se sei tecnico, puoi permetterti certe pause “à la Valerón” (qui trovate poche righe ma poetiche). Se sei estroso like Silva, allora preparati ad esplodere portando con te il bagaglio di calidad apprese a in Canaria. Ultimo flash: in questo articolo risalente al marzo 2015, Jorge Cruz esalta la politica della società, che ha scelto di puntare stabilmente sulla cantera. Tanto che, nella classifica sulla Liga che prende in considerazione il numero di giocatori formati dal vivaio e militanti in prima squadra, i canarini sono al secondo posto. Non male. Ricordate però che in Spagna gioca anche l’Athletic Bilbao, con il suo calcio autarchico ottimamente sintetizzabile dal motto storico “con cantera y afición, no hace falta importación”. E comunque, per dovere di cronaca, erano solo due in più i giocatori baschi rispetto a quelli della UD (19 contro 17). Altro punto in comune tra rojiblancos e canariones è l’azionariato popolare. Oltre ad una pasion del fútbol indescrivibile. Basta andare a cercare su internet qualche video della torcida del San Mamés.
Dov’eravamo rimasti? Ah, sì, ad Araujo che si prende per mano la squadra e la porta in Liga. Il 10 luglio 2015, il presidente del Las Palmas, Miguel Ángel Ramírez, annuncia di aver acquistato dal Boca Juniors il 70% del cartellino del giocatore. Nel contempo però, ecco arrivare i primi sondaggi dall’estero: in particolar modo per quanto concerne il Palermo, arrivato ad un passo dal giocatore che nelle idee di Zamparini avrebbe dovuto prendere la corposa eredità di Paulo Dybala. E’ stata un’estate caliente, sia per il giocatore che per il club: più volte lo stesso Ramírez ha dichiarato di non aver alcuna intenzione di cederlo (“Abbiamo un progetto importante, vogliamo mantenere la categoria. Il giocatore ha firmato un quinquennale con noi, il suo rappresentante verrà e troveremo la soluzione”). Preso atto del veto, la società rosanero ha continuato il pressing sul suo obiettivo: col tempo, sempre più dettagli hanno accompagnato la querelle. Sky ha rivelato che il Las Palmas avrebbe potuto accontentarsi di 10 milioni, svelando poi che il 20% della futura rivendita sarebbe spettato, come da contratto, al Boca. Poi è stato il turno di Gianluca Di Marzio, che tramite il proprio sito ha reso noto il valore della clausola rescissoria del ragazzo (60 milioni), accompagnato da un breve virgolettato del presidente della società canaria (“Non dico che ci sia qualcuno disposto a pagarla, ma quella clausola c’è”). Poco dopo, anche il ds Toni Cruz ha ribadito il pensiero della dirigenza, interpellato da Canarias7: “E’ un giocatore dell’UD. Ha dimostrato di non essere un giocatore di Segunda ed il suo valore è molto alto. Vogliamo che mostri il suo valore qui, ma abbiamo anche chiaramente valutato una sua possibile uscita. Nei prossimi giorni, se ci saranno delle possibilità, le valuteremo, ma non è nostra intenzione perderlo”.
Eppure, nessuna di questa smentite ha avuto l’effetto sperato. Anzi, il pressing della società siciliana si è fatto sempre più pressante, tanto da arrivare a metter sul piatto 13 milioni di euro. Inoltre, sono poi emersi due importanti dettagli: il primo riguarda la valutazione fatta dal Las Palmas sul giocatore (si parla di 18 milioni, anche in questo caso mai confermati né smentiti, ma ça va sans dire, questo è il calciomercato), il secondo invece parla di un paio di blitz a Gran Canaria da parte di emissari rosanero. Ecco però spuntare il nome di Defrel, e chi vi scrive non è ancor oggi in grado di spiegare se il francese allora al Cesena fosse un’obiettivo reale o solo un diversivo per metter fretta al club neopromosso nella Liga. Una brusca frenata per Araujo, poi le parole di Stefano Borghi (“E’ un attaccante vero, senza sfumature. Nella scorsa stagione però è tornato a mostrare la sua grande qualità nella seconda serie spagnola, campionato dove si gioca molto bene. Non ha mai vissuto le grandi pressioni europee, ma credo che sia completo e pronto per un’esperienza nel calcio che conta”) e di nuovo amore a prima vista. Sembrava fatta, addirittura il vice allenatore Ángel Rodríguez il 27 luglio rispondeva ad una domanda postagli in un modo che pareva non lasciar spazio ad interpretazioni (“Araujo è il nostro giocatore più importante, ma ci sono offerte che sono difficili da rifiutare“). Nel frattempo, poi, fonti vicine (?) al giocatore avrebbero fatto capire come lo stesso avesse fatto pressioni per il trasferimento in Sicilia. Ecco però che anche il tempo filava via, e ogni giorno che passava, le percentuali di vedere Sergio in Italia diminuivano esponenzialmente. Il 20 agosto, poi, è stato Zamparini a chiudere ogni porticina alla love story annunciando l’accordo con Gilardino, parallelamente ad altri nomi quali Campbell, Djurdjevic e Defrel. “Siccome sono uno fortunato, se è andata così, vuol dire che va bene in questa maniera“. E pensare che anche il connazionale Icardi aveva provato in ogni modo a convincerlo della pista italiana (“Chino, vieni in Italia: vai al Palermo!”)…
Queste le parole, nel post partita, di Quique Setién, che si trovava ora a galleggiare al decimo posto salutando definitamente la zona a rischio. Il giorno dopo il match, ecco che il Mundo Deportivo parla di un interesse dell’Inter per Araujo. Che, contro lo Sporting Gijón parte dal 1′ prima che si compia ancora una volta la staffetta con Willian José. Contro il Betis finisce 1-0 a Siviglia, poi ecco un’altra prova entusiasmante da parte della squadra canaria: il 4-0 ai danni dell’Espanyol, altra gara in cui non c’è traccia di un Sergio neppure in panchina. A salvezza acquisita, c’è stato un calo nelle ultime tre partite (un punto in tre partite contro Granada, Bilbao e Malaga), in cui Araujo ha mostrato la sua discontinuità (nella sconfitta a Granada, 3-2, ha sbagliato un paio di reti). Tuttavia, è stato anche grazie a lui che la stagione del Las Palmas è stata definita “annata da incorniciare” da Sétien, che ha inoltre aggiunto “chiudiamo comunque nella top ten, un risultato incredibile che ci lascia completamente soddisfatti. La squadra ha giocato bene durante tutto l’anno e ha raggiunto un’identità precisa. Ringrazio i ragazzi per la disponibilità che mi hanno concesso”.
Quest’inizio di stagione, per Sergio, è stato sulla falsariga di quello scorso. Negativo, troppo discontinuo, assai altalenante. 12 presenze, spesso da subentrato a gara in corso, e 2 reti. Complice la presenza di Marko Livaja, gli spazi per Sergio si sono sempre maggiormente assottigliati, e complici alcuni problemi comportamentali (a cui ho dedicato un paragrafo a parte), il suo rapporto con la piazza e col tecnico Setién si è a dir poco irrigidito. Pertanto, ecco che in questi mesi si è sempre più profilata la possibilità di un suo trasferimento altrove, al fine di valorizzare le sue qualità evitando di bocciare in via definitiva il ragazzo che, a Gran Canaria, è ancora in credito di fiducia dopo quanto fatto vedere due stagioni fa, in Segunda División. Il 9 gennaio, ecco che emerge l’Atalanta come pretendente per lui: a Bergamo, infatti, si era alla ricerca di un alter ego del Papu Gomez, di cui eventualmente avrebbe potuto anche prendere il posto in caso di cessione. Eppure, il Las Palmas avrebbe preferito una cessione a titolo definitivo, essendo in trattativa col Psg per Jesé Rodriguez e volendo pertanto evitare il sovraffollamento della rosa. Solo prestito con diritto di riscatto, quello proposto dall’Atalanta, alla quale poi anche il Chievo si è aggiunto (in questo caso, puntando all’argentino quale sostituto di Floro Flores). Le parole di Quique Setién, poi, avevano fatto gola alle italiane (“Araujo non è ancora al massimo fisicamente, ma io sarei felice se partisse in questa sessione di mercato. Ultimamente sta giocando pochissimo e con l’arrivo di Toledo e Calleri è giusto che se ne vada”). Giusto per dovere di cronaca, né l’affare legato all’ex Fiorentina, né quello relativo all’attuale puntero del West Ham si concretizzeranno. Secondo Canarias7, poi, il Araujo avrebbe declinato le proposte provenienti dalla Cina e dallo Sporting Gijón: non sarebbero state destinazioni gradite per El Chino, che aveva manifestato l’intenzione di continuare in Liga. Nel frattempo, ecco il benservito da parte del presidente Miguel Ángel Ramírez: “Abbiamo delle opzioni, in Europa, per far sì che alcune squadre paghino il salario del giocatore, facendolo uscire nei prossimi giorni. Ora ha bisogno di andarsene da qui”. Detto questo, ecco che l’occasione di rilancio è arrivata, e risponde al nome di Athlītikī Enōsis Kōnstantinoupoleōs. Il 25 gennaio il suo nome è rimbalzato dalle frequenze di Radio Marca Gran Canaria, il giorno dopo è arrivato il comunicato ufficiale della UD.
Prima, però una breve digressione. Questa volta, a proposito del carattere di Araujo. Il 26 settembre 2016 si era rifiutato di sottoporsi ad un test alcolemico, i cui risultati poi avevano evidenziato un valore tre volte superiore al consentito (fatto che gli è costato, da parte del Tribunale Penale numero 3 della capitale di Gran Canaria, nove mesi di prigione e due anni di sospensione della patente). E siccome la sfrenatezza fa parte del suo carattere, come il lupo perde il pelo ma non il vizio, il 18 gennaio è stato nuovamente trovato positivo, alle 8,30 del mattino, da una pattuglia. Per tacere poi, naturalmente, delle numerosi notti brave e della smania per i tatuaggi. Probabilmente stufo di questi fatti extracalcistici, Setién aveva usato parole abbastanza dure: “Sicuramente ha bisogno di un aiuto, credo che una squadra estera possa dargli fiducia. Il caso dell’attaccante è molto complicato, scomodo un po’ per tutti. Credo che, a questo punto, la cessione sarebbe la miglior soluzione per tutti”.
E nelle prime ore del 26 gennaio, ecco che “AEK FC announces the six month loan agreement with UD Las Palmas for Sergio Araujo, with the option of extension for one more year”. E ancora, “Sergio Araujo will be the No11 of his new club”. E particolar importanza voglio offrire alla scelta del numero, perchè in casa Aek più di una perplessità è stata sollevata. In fondo, la camiseta 11 è stata negli ultimi anni sulle spalle di giocatori dal grande talento (presunto), ma che non hanno lasciato ricordi propriamente indimenticabili, al Δικέφαλος Αετός. Parlo di Miguel Marcos Madera, altresì conosciuto come Míchel, che dal 2015 milita nel Qarabag, Vangelis Platellas, tre anni all’Aek (15 reti nel 2013-14 ma poco altro), Michalis Pavlis (una carriera interamente dedicata all’Aek, del quale ora allea gli Under10, ma tanti prestiti e la sfortuna di un ritiro precoce a causa della sclerosi multipla), Dimitris Sialmas (ora lo trovate al Panachaiki, in seconda divisione).
A Las Palmas, la sua Diez è ora appannaggio di Jesé. Sarà certamente difficile chiudere (per il momento, poi chissà) il capitolo canario, per aprirne uno sempre macchiato di giallo ma mischiato al nero. I colori che rimandano alla bandiera dell’Impero Bizantino sotto la dinastia dei Paleologi, poi per estensione anche il simbolo del risorgimento greco contro gli Ottomani. Intanto, il peso della storia non sembra turbar più di tanto Sergio. Due giorni fa, allo Spyros Louīs, è stato protagonista nel 6-0 di Coppa di Grecia contro il malcapitato Levadiakos: oltre a due reti (entrambe di testa, entrambe su assist di Ronald Vargas: al 28′ e al 61′), in 80′ ha mostrato grande freschezza e voglia di fare. Certo è che il suo impiego da prima punta potrebbe esser limitato dalla presenza di Tomas Pekhart. A meno che il ceco non venga dirottato sull’esterno (soluzione che a me piace davvero poco). O che il modulo diventi un 4-4-1-1 con Araujo tra le linee: in questo caso, avendo già mostrato al Las Palmas come in determinate occasioni Sergio non riesca a far reparto da solo e a garantire quella fisicità necessaria, la fase offensiva dell’Aek conterebbe sui centimetri di Pekhart e sulla mobilità, la creatività, l’estro e la genialità dell’argentino. Le questioni sul modulo le lascio però a Manolo Jiménez, che reputo molto competente (se può interessare, l’ho elogiato qui). Mi limito a ripetere che, lasciato libero di esprimersi, non è detto che Sergio non possa prendersi la squadra sulle spalle come già ampiamente fatto in carriera. E se cominciasse ad ingranare, a risolvere qualche partita e a trovarsi bene ad Atene, non è detto che poi non possa definitivamente spiccare il volo. In fondo parliamo sempre di un classe ‘92, dunque 25enne. Lui, Sergio. Lui, che sognava di giocare con Messi. Lui, che quando gli era stato chiesto un nome a cui si ispirasse, aveva proferito quello di Sergio Aguero. Lui, che col tempo ha seriamente rischiato di finire in Italia (oltre ai già citati sopra Palermo, Inter, Atalanta e Chievo, leggo che fu vicino al Torino essendo un pallino del ds Gianluca Petrachi). Lui, che era stato accostato col tempo anche a Fiorentina e Real Madrid. Lui, che ha finalmente voglia di mettersi alle spalle gli eccessi che ne hanno limitato la crescita e, chissà, la definitiva esplosione.
Lui oggi è ad Atene, e dopo la carriera che (se siete arrivati a leggere fino a qui) adesso conoscete, è pronto a ricordare al mondo di non essere soltanto il ragazzo di talento stoppato dall’alcool, da una condotta non propriamente da professionista, dalla smania per i tatuaggi, dalle frequenti notti brave. Andando a cercare sul dizionario il termine “redenzione“, si trovano due voci:
2) salvezza o scampo (per lo più in frasi negative). Scremando il vocabolo da ogni suo connotato religioso, ecco che quella che emerge è la sintesi perfetta della sua storia. E non è neppure sbagliato menzionare l’accezione negativa (vedi al punto 2): in fondo anche Sergio dovrebbe sapere che probabilmente l’Aek è l’ultima grande chance per tornare grande, per rientrare nel calcio che conta dalla porta principale (il campo), e non da quelle secondarie (le cronache extracalcistiche). In fondo, qui si trova a condividere il posto con Tomas Pekhart, uno che di potenzialità inespresse se ne intende. Potrebbe esplodere e tornare grande, Sergio. Oppure, rimanere a vita nel limbo, trovandosi a sgomitare col collega ceco per un minsero posto dal 1′ in una squadretta greca. Di certo, questo è il suo momento. L’ultima occasione per redimersi completamente.
Matteo Albanese
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