Il talento portoghese è l’unico vero fuoriclasse della squadra, eppure continua a dividere. Il rischio? Vederlo esplodere altrove, come troppe volte è accaduto.
Guardiamoci in faccia, senza più nasconderci dietro scuse o illusioni: Rafael Leão è il Milan. Nel bene e nel male. Quando si accende, il Diavolo rialza la testa, torna a far paura, ricorda a tutti che la sua storia non è quella di una squadra qualsiasi. Ma quando si spegne, e purtroppo succede troppo spesso, il Milan diventa prevedibile, scialbo, incapace di imporsi. La verità è che i rossoneri non possono prescindere da lui, perché è l’unico vero talento di una squadra che ha perso mordente, che si è incartata su se stessa, prigioniera di scelte di mercato e di una guida tecnica che non hanno saputo valorizzarlo appieno.
Dicono che sia svogliato, che non corra abbastanza, che sembri quasi giocare per inerzia. Eppure, quando decide di fare sul serio, è semplicemente devastante. Il problema è proprio questo: decide troppo raramente. Leao è un potenziale Pallone d’Oro che sembra non accorgersi di esserlo. O, peggio ancora, che non gli interessi.
Se ne parla spesso, tra i tifosi: cosa succederebbe se Leão giocasse in un club con una mentalità vincente? Se avesse un allenatore in grado di metterlo in riga, se fosse inserito in un sistema che non accetta pause o alibi? Domande che fanno paura, perché la storia del Milan recente è piena di rimpianti. Theo Hernandez prima di lui era un talento anarchico e indisciplinato, ma il Milan di Pioli, quello della rinascita, lo ha trasformato in uno dei migliori terzini al mondo. Ma quanti altri, invece, sono stati lasciati andare, solo per vederli diventare fenomeni da un’altra parte?
Leão ha il contratto rinnovato, il Milan ha puntato su di lui, ma per quanto ancora? Se dovesse continuare a giocare al 50% delle sue possibilità, una grande offerta potrebbe diventare impossibile da rifiutare. E allora prepariamoci: lo vedremo andare in Premier League e diventare l’idolo di un altro stadio, con un tecnico che lo strapazza in allenamento e lo costringe a giocare 90 minuti a mille all’ora. E noi? Noi resteremo con il solito, eterno rimpianto.
C’è però un’altra verità, più scomoda, più difficile da accettare. Il problema non è solo Leão. Il problema è il Milan. Una società senza una guida chiara, senza una vera visione. Le grandi squadre mettono i loro campioni davanti alle loro responsabilità: se vuoi essere un numero uno, devi comportarti da numero uno. Devi allenarti al massimo, devi lottare, devi prenderti sulle spalle la squadra. A Madrid, Barcellona, Manchester o Monaco questo è scontato. Al Milan, invece, sembra che tutto sia concesso.
Forse il vero interrogativo non è se Leão sia davvero un campione o solo un talento incompiuto. Forse la domanda giusta è: il Milan di oggi è in grado di trasformarlo in un campione? Perché se la risposta è no, allora non sarà Rafael Leão il problema. Ma sarà l’ennesima dimostrazione che questo club ha smesso da troppo tempo di essere quello che è stato per decenni: un club che crea fuoriclasse, non che li rovina.
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