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Racconti dal Ferraris, post Tim Cup

The Temple, il tempio. Questo il soprannome di quell’ammasso di ferro e cemento che risponde al nome di Luigi Ferraris, così vetusto ma altrettanto nostalgico da indurre il tifo genoano a rifiutare ogni ipotesi di nuovo stadio pur fosse gratis. Troppo forte il richiamo ad un passato mitico, magari dal tono un po’ british, che caratterizza e contraddistingue questo posto. L’esterofilia non è solo quella in Genoa-Torino, e cliccate QUI per rileggerla, ma semplicemente quel vento di maccaja che ti scompiglia i capelli quando passi dinanzi al tempio.

Quando fu giocata la Pioners Cup, o quando nel gennaio 2013 fu invitato in Liguria lo Sheffield fc, piuttosto ancora quando Jack Savoretti prende sottobraccio la sua chitarra e comincia a cantare in un inglese fortemente xeneise. Non ha mai fatto mistero del suo tifo sfegatato per la squadra più antica d’Italia, Jack, così come il leader del Kasabian Sergio Pizzorno (uno che spesso e volentieri si fa vedere con maglia o sciarpa rossoblù al collo), così come pare che Frank Sinatra si fosse fatto seppellire con una cravatta del Genoa. Tutte radici che legano oggi quel Grifone alla Union Jack, che peraltro si trova pure nello stemma societario ed è immediatamente riconducibile a San Giorgio. Ogni qual volta il Ferraris dà voce alle sue decine di migliaia di ugole per intonare un “You’ll Never Walk Alone”, come ieri, oppure ogni qual volta si ripensi ad Anfield, al tandem Aguilera-Skuhrawy, ad un modo di giocare che non è italiano ma tipicamente britannico. Ah, piccolo orgoglio: siamo stati i primi a vincer a Liverpool, belin…

Era l’estate 1893, quando il giorno 7 settembre nel consolato inglese di via Palestro si diedero i natali al Grifone. Una società che da sempre si sposa con la linea che noi in Footbola cerchiamo con tutti noi stessi di raccontare, ovvero tendente all’esterofilia. C’è il Genoa di argentini, quello del giapponese Miura, poi qualche svedese disseminato qui e là, tanti sudamericani specie sotto la gestione Lo Monaco, c’è stato il Grifone che Preziosi utilizzava prevalentemente per importare in Europa sudamericani dal dubbio talento che poi avrebbero sfondato (molto raramente) o lasciato la città senza alcun rimpianto (spesso, ahimé). C’è stato il Genoa d’Oro, non di Spensley ma di Garbutt, c’è stato Gren ai tempi di tale Verdeal, uno che il popolo genoano non può non conoscere. C’era Davidson, e una lunga lunghissima lista di nomi simili ma tutti accomunati da quel patronimico alla inglese, così irriconoscibilmente british.

Ieri, al Ferraris, ero seduto al posto numero 13 nella quarta fila. Tradotto in parole spicce, mi trovavo tutto in alto a destra, con la Nord all’estrema sinistra rispetto alla mia postazione. Accanto a me, ma separati da una barriera atta a distinguere la tribuna normale da quella dedicata alla stampa, una truppa di ragazzi dall’aspetto foreign, tutti rigorosamente abbigliati a mo’ di tifosi genoani in loco, ma esportatori dei loro chiari riti scaramantici prepartita. Una birra, dei panini, il sapore del football come solo oltremanica riescono a viverlo. Abbiamo scritto una guida alla Premier League, andatevela a leggere e scoprirete già dalla prefazione di cosa sto parlando. L’allegria, la tensione, la tristezza quando our club è andato sotto ma anche la gioia quando il goalkeeper Perin ha fatto il suo dovere e lo striker Simeone idem con patate (e gol annesso). Nervosismo talmente fitto da poter esser tagliato col coltello, quando l’arbitro ha decretato i supplementari e uno di loro guardava con occhi abbastanza rassegnati l’altro. Eppure no, tutti quanti hanno esultato al blitz del winger Laxalt. Dopo una birretta postpartita, qual modo migliore di festeggiare il passaggio del turno in Coppa Italia, o come direbbero loro Tim Cup, via dai loro posti con tutta la calma di chi sapeva perfettamente che we would have done it. A fine partita, ed era sera, mi è dispiaciuto un po’ salutare quel cielo così carico di pioggia. A dire il vero una volta messomi in coda per ritirare l’accredito c’era un sole che letteralmente spaccava le pietre: col calar del buio, è stato gettato un velo di nubi su Marassi così come nebulosa è diventata la partita del Genoa. Una volta finito tutto, nulla mi ha impedito di goder di quell’emozione unica, una volta uscito dal Ferraris con un cielo bellissimo che sovrastava me, il mio solito pass con lo sfondo blu e una serata tranquilla, poi burrascosa, infine ancora piatta come una tavola. Solo un dubbio mi attanaglia, ora, a dire il vero. Erano davvero inglesi, quei ragazzi di cui vi ho raccontato le gesta?

[Ogni foto presente è stata scattata dal sottoscritto]

Matteo Albanese

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