La UEFA Europa League è una delle competizioni sportive organizzate dall’UEFA, la seconda per prestigio dopo la Champions League, che puntualmente viene vinta dal Sevilla FC. Non si potrebbe facilmente obiettare su quest’affermazione, considerando la storia recente della formazione andalusa. Torino 2014, Varsavia 2015, Basilea 2016: ricordo ancora la prensa iberica elogiare Unai & giocatori esortandoli in tono rabbioso. “A por la cuarta (verso la capitale polacca)”, si leggeva. Si era scritta la storia, un bellissimo romanzo che affondava le proprie origini direttamente dalla figura di Antonio Puerta. Già, proprio quello sfortunato difensore che Iniesta ha ricordato alzando la maglietta e mostrandolo alle tv di tutto il mondo, dopo la rete che decise la finale mondiale a Johannesburg. Si potrebbe star qui per ore a parlarne, un giorno magari lo farò. Fatto sta, se l’hanno chiamata Sevilla League un motivo ci sarà.
Eppure, così come tutte le cose, anche questa ha una fine. Sarà triste, la sera del 24 maggio, sopra il cielo della Friends Arena di Solna, veder sollevare quel trofeo non dalle braccia di Rakitic, Reyes (ma fu Navarro ad alzare quei 15 chili d’argento per primo) o Coke. Sarà triste non veder più Unai Emery correre per il campo, festeggiando quella che ormai sarà diventata un’abitudine. Dovremo abituarci: il tecnico basco è passato al Psg, molti giocatori hanno cambiato casacca (tra cui lo stesso Coke, autore di due reti al St.Jakob-Park), è arrivato Jorge Sampaoli. Che ha fatto molto bene, terminando secondo nel suo girone e dunque spegnendo sul nascere le speranze in una storica quarta volta consecutiva. Dopo ieri sera, tuttavia, sarà impossibile anche continuare la strada in Champione League. Il Siviglia, quello della Sevilla League, è stato estromesso dal Leicester. Una sorpresa (a queste latitudini) contro la sorpresa per eccellenza, autrice della maggior impresa nella storia del calcio e magari pure dello sport. Del match ne ha parlato (molto bene) Ada Cotugno,
Cinco años sin ser eliminado en Europa. Questo il titolo di un gran pezzo uscito sul Mundo Deportivo, proprio a proposito della grande forza dell’equipo rojiblanco. Era l’agosto 2011, quando l’Hannover sbatté fuori dall’EL quel Siviglia di Marcelino Garcia Toral. Da allora, un ruolo di marcia impressionante. Le vittime? Ci sono tutte, eccole. Nel 2013-14 furono Maribor, Betis, Porto e Valencia. Nel 2014-15 toccò a Borussia Mönchengaldbach, Villarreal, Zenit St Petersburg e Fiorentina. Quanto al 2015-16, dopo aver concluso in terza posizione nel girone di Champions, ecco l’Europa League che ha visto Gameiro e soci annientare Molde, Basilea, Athletic Bilbao e Shakhtar Donetsk. E, nelle tre finali, un unico comune denominatore. A Torino, contro il Benfica, non fu giocata una grandissima partita e i lusitani avrebbero meritato almeno il vantaggio. Mi piace pensare che sia stato tutto merito (o colpa, a seconda di come la si vuol intendere) di uno sgarbo che la società delle aguias commise nel lontano 1962 evitando di pagare un premio pattuito ad un tecnico ebreo. La storia la sapete, questo personaggio accusò il club di non avere “il culo per sedersi su due sedie” e lanciò la maledizione probabilmente più conosciuta nella storia del calcio. «Da qui a cento anni nessuna squadra portoghese sarà due volte campione d’Europa ed il Benfica senza di me non vincerà mai una Coppa dei Campioni». E si può obiettare sulla sua validità (la prima parte dell’anatema è stata rotta da José Mourinho col suo Porto), non certo si può fare altrettanto riguardo all’aspetto psico-emotivo che abbia avuto negli anni nell’ambiente benfiquista. Gli errori di Cardozo e Rodrigo dal dischetto, la gioia incontenibile di Beto, la faccia intristita di Jorge Jesus, poi Stephane Mbia che dagli 11 metri non sbaglia e mima un saluto militare. Finisce così, con la marcatura decisiva di Kevin Gameiro, il primo libro della trilogia.
Il secondo libro, invece, sulla carta avrebbe avuto la trama decisamente più scontata rispetto al primo. In fondo , mica si trattava del Benfica: questa volta, a contendere il trofeo, ci sarebbe stato il Dnipro. Ne parlai così, a suo tempo, scrivendo per GolSerieA: qualche esperimento nucleare, la guerra del Donbas e il coinvolgimento di Kolomoisky, presidente del club, come sfondo ad una realtà tremendamente invivibile. Qualche aiuto arbitrale (oltre a quelli famigerati contro il Napoli di Benitez, anche quelli nella fase a gironi a svantaggio del Qarabag: e già, il Dnipro non avrebbe nemmeno dovuto esser all’eliminazione diretta) e la strada per Varsavia era ormai spianata. “E’ stata la vittoria di un Paese, mi congratulo con tutta l’Ucraina, vorrei dedicare questa vittoria a tutti gli appassionati della nostra squadra, soprattutto a quelli che non potevano e non potranno gioire di questo storico successo, a tutti coloro che stanno difendendo la patria. Siamo ad un passo dalla vittoria finale dell’Europa League, auguro a tutti noi di farlo” dirà il patron del club. Siate sinceri, come avreste potuto non tifare per loro? Io lo ammetto: simpatizzavo per gli ucraini. E invece niente. Senza cuore, questo Siviglia, che è riuscito pure a tarpare le ali a questo misero undici proveniente da Dnipropetrovsk. Era la squadra che poteva contare su Kalinic e Seleznyov davanti, sulla leadership di Konoplyanka e ancor più di Ruslan Rotan, sulle paratone di Boyko, su quel santone di Myron Markevych in panca. Stadio Nazionale di Varsavia: Kalinic incornò alla perfezione un cross di Matheus, rispose l’autoctono Krychoviak, nato al confine con la Germania ma in territorio politicamente polacco. Rijoblancos avanti con Bacca, poi pareggio di Rotan su gran calcio di punizione alla fine della prima frazione, nella ripresa definitivo 2-3 sempre col colombiano in gol. Era il tempo in cui si aprivano le fantasie di calciomercato, per l’ex Brugge, mentre allo stesso tempo si rammentava di quando faceva il pescatore e timbrava biglietti del bus sulla linea di Barranquilla. Segnalo un mio pezzo, non adatto ai deboli di cuore: potrei convincervi a sostenere comunque il Dnipro come seconda/terza squadra. E la delusione sopraggiunse, mai fu così forte a giudicare da come sta messo adesso quello che si può tranquillamente definire un dead club playing. E rimpianti. Quelli, a bizzeffe, proprio.
Ed eccoci all’ultimo capitolo. L’epilogo, di una storia che oggi è destinata ad esser tramandata come leggenda ma che fino a qualche mese fa era ancora in corso di svolgimento. E’ sempre brutto parlare di una fine, eppure mi tocca. In fondo, non dovrei ma lo faccio. Se avete letto fino a qui, vi rivelo un segreto. Nel 2014 simpatizzavo per il Benfica, l’anno dopo per il Dnipro. Nel 2016, forse perché il Liverpool non mi ha mai attratto più di tanto, forse perchè avevo ormai fatto l’abitudine al fatto che vincesse il Siviglia e volevo evitar di perder tempo a sperare in altro, mi trovavo a parteggiar in minima parte per Carriço e compagnia bella. Bellissima, a mio parere, la sfida del St.Jakob-Park di Basilea. Due 4-2-3-1 contro, la mentalidad ganadora di Unai Emery III contro il calcio heavy metal (chiamatelo gegenpressing) del rocker Klopp. Si comincia, tante emozioni ma a segnar è Sturridge. A dirla tutta, cominciavo a pensare che il problema fossi io e che il fato decidesse, ad ogni finale, di far pendere la bilancia dalla parte verso la quale non l’avrei fatta pender io. Prima della finale Emery aveva parlato di routine, ammettendo come la routine e la preparazione alla finale fossero le stesse di quelle precedenti. E si era lasciato andare ad un commento, che nel prepartita avrebbe potuto suonar come azzardato. “Sarà una finale bellissima, con tanto ritmo e tanto gioco”. Ma alla fine, ha avuto ragione. Tre anni dopo la finale di Champions persa contro il Bayern, Jürgen Klopp ha perso anche l’atto conclusivo dell’Europa League. La sua squadra è durata un tempo, ha chiuso la prima frazione in vantaggio grazie a una maglia di Sturridge, ma nella ripresa si è sciolta come neve al sole consegnando di fatto la Coppa agli andalusi. ‘A por la quinta’ intonavano i tifosi nel pomeriggio a Claraplaz e alla fine quinta è stata. Dopo un match bellissimo, deciso da Gameiro appena entrati in campo per la ripresa e da una straordinaria, stupefacente, emozionante doppietta di capitan Coke. Alla fine, le parole di Unai saranno altrettanto esaltanti: “Volevamo rendere felici i nostri tifosi, il nostro segreto sta tutto nel lavoro”. Trabajo. Emery, ogni successo della sua carriera l’ha ottenuto così. Terza EL di fila compresa. “La volevamo fortemente, l’Europa League ha dato molto al Siviglia. Io sono qui da tre anni e mezzo e questa è la terza coppa che vinciamo. Ora dobbiamo soltanto goderci questa vittoria, la squadra se lo merita. Però, dovremo farlo per poco tempo perché domenica abbiamo un’altra finale da giocare (Supercoppa spagnola)”.
Conclusione. Sedici anni fa il Siviglia otteneva la promozione in Primera Division, undici anni fa alzava al cielo la prima Europa League. L’anno dopo ecco il bis, con Juande Ramos in panchina. Un biennio di successi che ha portato in bacheca anche una Coppa del Re, una Supercoppa di Spagna e una Supercoppa Europea. Poi i nuovi problemi finanziari a causa di un monte-ingaggi fuori controllo per un biennio di successi e un ridimensionamento che ha fatto rima con una nuova rinascita grazie al lavoro impeccabile del ds Ramón Rodríguez Verdejo, in arte Monchi. Nel 2010 è arrivata una nuova Coppa del Re, ma è con l’arrivo in panchina di Unai Emery nel gennaio 2013 che la squadra è tornata a far parlare di sé in Europa. Come e più di prima: tre Europa League una dopo l’altra, quelle che vi ho raccontato. Alla fine di una caldissima estate, Monchi saluterà il tecnico andaluso, promesso sposo al Psg, con un “buona fortuna e grazie di tutto”. La catena si è rotta, il Siviglia quest’anno ha fatto meglio (andando avanti in Championa) ma peggio (abbandonando al primo scontro ad eliminazione diretta). Quello che resta, è una magnifica storia. Una storia da tener a mente, rispolverandola di tanto in tanto premurandoci di non dimenticarla. E concludo con una frase, quella che reputo sia maggiormente toccante, al termine di questo viaggio. E’ una frase con un significato profondo, che certamente riassume meglio di quanto io abbia tentato di fare in quest’articolo come si sia formato il mito della Sevilla League. ‘Quando il mio Siviglia è chiamato all’impresa, risponde sempre presente’.
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