«Io sono juventino, ma con l’arrivo di Ronaldo i prezzi sono aumentati. Se ne approfittano, così io anziché andare a Torino vengo qui, a Nizza. Lo stadio è bellissimo, l’atmosfera mi piace, pago 135 euro l’abbonamento annuale e ci giocano pure le Coppe». Passeggiavo nervosamente tra mixed zone e la sala adibita a ospitar le conferenze stampa, varcando un confine forse fittizio, presumibilmente immaginario, che tuttavia fatico ancor adesso a comprendere. La struttura dell’Allianz Riviera era sin da subito stata un bell’ostacolo, ma a conti fatti ho facilmente compreso le parole del tifoso della Juventus, con qui mi ero fermato a scambiar qualche battuta in una sala dello stadio del Nizza, ottenendo in cambio una traduzione delle mie domande a Myziane Maolida. Era una specie di anticamera, in cui i calciatori si concedono ai curiosi e i giornalisti si mescolano a mogli e fidanzate. Un’atmosfera ibrida lungo il corridoio costantemente presidiato da press officer in rigoroso completo nero. All’inizio di questo, l’ascensore conduce alla tribuna stampa. Alla fine ecco invece una saletta elegante, poltrone rosse e cattedra da conferenziere.
Compresa l’obbligatorietà del tracciato esco, risalendo la corrente, e aspetto i giocatori. Due foto, qualche parola. A novembre chiesi di Mario Balotelli: mi risposero che se n’era andato imbufalito con Patrick Vieira – primi sintomi di un rapporto compromesso, a gennaio sarebbe stato ceduto all’OM – dunque desistetti. Mario non aveva giocato benissimo, sbagliò un comodo tap-in sottoporta, fu sostituito e prese male il cambio con Remy Walter. Luna storta. A maggio l’atmosfera era palesemente più rilassata: il settimo posto – meglio dell’ottavo conquistato l’anno prima con Lucien Favre – non voleva dire Europa League, ma comunque il clima era disteso. Mickaël Le Bihan giocò la prima gara da titolare dopo aver sconfitto infortuni e depressione, si concesse per una foto e una brevissima intervista. Tutti gli altri erano accomodanti.
Capitan Dante, Saint-Maximin, Pierre Lees-Melou che non riconobbi immediatamente, Malang Sarr che aveva segnato proprio quella sera, col Nantes. L’intera città respira seguendo il battito cardiaco dell’OGC: da Fabrice Mauro, lo speaker, ai caldi ultras situati nella Populaire Sud. Uno spettacolo per famiglie, colonna sonora firmata Dua Lipa ed Ed Sheeran, con sconfinamento in Ofenbach solo in caso di rete. Dentro a un colosso splendidamente ecologico (oltre a produrre più energia di quanta consumata, grazie ai pannelli fotovoltaici, ne fornisce alla città), con quella struttura a mo’ di nido e quelle travi in lamellare a racchiudere lo stadio, pullulo di facilities a cui l’Italia neppur pensa, è ancor più speciale ogni gara: il match program, le formazioni stampate in bianco e nero, le postazioni dotate di monitor, l’ascensore direttamente al parterre. La vetustà si paga, altrove, mentre Euro2016 insegna.
Nizza è la città europea maggiormente baciata dal sole (158 h in media nel solo mese di gennaio negli ultimi trent’anni, davanti a Barcellona, Atene, Torino e Bucarest). Tra la boutique de Les Aiglons situata nella centralissima Place Masséna e la Vieux-Nice, che avrei sentito anche chiamare Babazouk, c’era un lungo lembo di terra. Accompagnava verso ovest e conduceva al porto. Conduceva lontano, lontano dall’aeroporto Nice Côte d’Azur ma vicino a Place Garibaldi, e accompagnava l’incantevole Promenade des Anglais che parrebbe in gran parte costruita da emigrati piemontesi oltreconfine, portatori di sana manovalanza.
Di piemontesi ne incontrai uno al Gate K dell’Allianz Riviera, un attempato giornalista seduto dietro al banchetto presso cui era possibile ritirare le tesserine d’accredito. Riconobbe la mia nazionalità dal francese perfezionabile, arrugginito dai tempi della terza media e mai più oliato se non saltuariamente. Iniziò a parlarmi – in un italiano suo ben più comprensibile di quanto fosse il mio francese – dei motivi che lo indussero a oltrepassar la frontiera a Nizza, del forte sindacato della stampa sportiva che aveva consentito tutto questo. Mi accompagnò in ascensore mostrandomi la tribuna stampa, si sedette vicino a me, conversammo per lunga parte della gara. Devo ringraziarlo, perché prima del fischio d’inizio notò che stavo ammirando la curva e non mi ero accorto di un’aquila che stava volteggiando sul terreno di gioco: si trattava di Méfi – avrei scoperto esser la mascotte del club – e sarebbe stata seguita dalla celebrazione di un tratto identitario non da poco. Un canto che non faticai a comprendere per via della somiglianza con l’italiano e ancor più col dialetto ligure/piemontese/occitano. Accompagnato da uno sventolio di bandiere, faceva più o meno così:
«Toujou iéu canterai,
Souta li tiéu tounella
La tiéu mar d’azur
Lou tiéu cièl pur
E toujou griderai
en la miéu ritournella
Viva, viva, Nissa la Bella»
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