Sono le 22:31, ora locale, dunque +1 rispetto a Roma, quando le telecamere della regia indugiano sul volto di un Paulo Fonseca abbastanza contrariato. Di Francesco era appena saltato dalla panchina a festeggiare la rete di Cengiz Ünder, Francesco Totti si era lasciato sopraffare dall’emozione scambiando commenti con El Shaarawy, altrove le immagini lasciavano trasparire un senso di freddo. Gelido. La neve intorno al campo di Kharkiv, rimossa in fretta ma non abbastanza da non lasciarne traccia, forse proprio per creare un effetto di disordine pseudo-cosciente, le coperte usate dai calciatori padroni di casa, gli Hirnyky, “minatori” (o Kroty, “talpe”), per ripararsi da un gelo inospitale. Surreale, una sorta di sentimento repulsivo nei confronti di una Kharkiv che sembrava fin troppo poco accogliente: rivale in più, atmosfera ambientale corrotta e ben lungi dall’aver davanti il proprio pubblico. Insomma, sarebbe potuta esser un punto debole. E invece no, perché il portoghese Paulo Fonseca, ex Braga e in Ucraina dall’estate 2016, l’ha tramutato nella più magica delle trasposizioni.
In fondo non è casa loro, quella. Lo Shakhtar, da šachtar, aggettivo che in epoca sovietica andava a indicare i colleghi di Aleksej Grigor’evič Stachanov, è nato principalmente come espressione ludica di un gruppo di minatori. Inizialmente fu Stachanovec, poi Lenin’s Club e da lì ha assunto la denominazione odierna. Prima che essere una squadra di calcio, però, la squadra è patrimonio di Donetsk, delle miniere, di gente lavoratrice, di gente che dall’estate 2014 non può più godersi la magnifica Donbas Arena per via dei bombardamenti che ne hanno dilaniato la carcassa. Terra di conflitto, dunque di migrazioni. Non brillano più le pareti led di un gioiello blu zaffiro, che è stato strappato al calcio da una cannonata particolarmente devastante. Pure lo Zorya, compagno di girone dell’Östersunds FK, ha dovuto lasciare (quel che resta di) Luhansk recandosi nella parte sicura d’Ucraina, Leopoli, nome originario L’viv. Dall’estate 2014, come detto, lo Shakhtar gioca nell’Arena inaugurata qui nel 2011 in previsione dell’Euro 2012: siamo a 1150 km, quelli che separano i minatori dalla loro amata terra. In questo contesto la Roma è atterrata a Kharkiv, città che non è scelta a caso perché reca una forte componente di tifo nero e arancio.
Da L’viv lo Shakhtar se n’è andato lo scorso anno, gennaio 2017, preferendo il Metalist Stadium (non più nella parte occidentale del paese bensì nell’omonimo oblast’. Dei 400 milioni spesi per il gigante metallico della Donbas Arena, quasi interamente finanziata dalla proprietà Akhmetov, resta solo qualche immagine datata ormai anni. Inaugurata nell’agosto 2009, estate felice nella quale si erano ormai protratti i festeggiamenti del 20 maggio 2009, a Istanbul, con la Coppa UEFA alzata nello stadio del Fenerbahçe da Mircea Lucescu. Il santone romeno era in tribuna, dove pure lo sguardo attento di Andryi Shevchenko fissava attonito lo Shakhtar sotto nel punteggio. Poco male, perché da lì a poco Marlos e compagni avrebbero compiuto la rimonta: Facundo Ferreyra in slalom su Florenzi, il brasiliano Fred direttamente da calcio piazzato. E anche senza Lucescu, che oggi fa il commissario tecnico della Turchia e avrà senza ogni ragionevole dubbio apprezzato la verve di Ünder, il risultato è stato positivo: merito di Fonseca, mister zorro, l’estroso tecnico che si presentò mascherato in sala stampa dopo il 2-1 offerto al Manchester City con tanto di qualificazione agli ottavi alle spese del Napoli. Merito di una squadra storicamente latina, che dalla cintola in su parla portoghese. Merito di un gran carattere, coriaceo ed estremamente ostinato, restio, caparbio e irriducibile.
Era il 17 febbraio 2015, quando lo Shakhtar ospitava il Bayern Monaco. Sono passati quasi tre anni e Darijo Srna, che nel frattempo ha vissuto sulle montagne russe (tra la scomparsa del padre durante Euro 2016 e la positività a un controllo antidoping effettuato dopo un match col Napoli), allora commentò il fatto di dover giocare lontano dal Donbass: “È un problema per noi, perché non hai la forza del tuo pubblico. Donetsk è la nostra città, Lviv no“. Parole chiare, che testimoniano il background del successo di ieri meglio di ogni altro aspetto. Per i minatori la strada è ancora dura, c’è un ritorno all’Olimpico da onorare. Solo con un risultato positivo in trasferta lo stemma dello Shakhtar, che ha sostituito il precedente nel 2007 ed è stato peraltro creato da una società italiana (la Interbrand) riuscirà ad approdare ai quarti di finale di questa Champions League.
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