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Louis Saha racconta: «Ecco come voglio cambiare il calcio»

Louis Laurent Saha è uno di quegli ex calciatori che non hanno paura di sparare a zero sul terreno in cui hanno vissuto per anni. L’ho incontrato allo Sportel e nonostante un inizio piuttosto mainstream (alla mia richiesta di presentarsi in un tweet ha risposto in 88 caratteri: «Very authentic lad who loves to deep through things and is committed to do better things»), non avrebbe risparmiato niente a nessuno: al 50% dei calciatori che statisticamente fallisce nel primo quinquennio di carriera, a Mbappé e Rashford caricati di pressione, a chi lo critica per aver vinto (Champions League 2008) e perso (Mondiale 2006) senza entrare in campo. Non casualmente gli ho chiesto di presentarsi su Twitter visto che proprio qui l’8 agosto 2013, festeggiando 35 anni, annunciò il ritiro.

Sul non aver indetto una conferenza stampa, Saha esordisce: «I didn’t felt like I was big enough to do that», definendosi prima «lucky» e solo dopo «privileged». In compenso ha pubblicato due libri nel 2012, tra il primo (Du quartier aux étoiles) e il secondo (Thinking Inside the Box: Reflection on life as a Premier League footballer) passano soli tre mesi. A quel punto si parte dagli esordi: «Clairefontaine è solo una parte del forte sistema d’academies francese, Parigi ha insistito molto e i frutti si chiamano Anelka ed Henry». La seconda pubblicazione è un po’ il manifesto della sua prosecuzione anticonvenzionale di carriera: non agente, non opinionista né allenatore. Ha co-fondato una società di consulenza, l’Axis Stars: «Ho collaborato in Stellar Group, che è stata la mia agenzia, poi ho imparato come funzionasse il meccanismo e ho voluto cambiarlo. Fitness, management e investments creano un forte gap tra agency e calcio, anzi tra calcio e famiglia visto che a far da procuratori è spesso un familiare». Sul sito dell’Axis c’è scritto che il 50% dei calciatori fallisce statisticamente entro i primi cinque anni di carriera, dunque Saha non scherza: «That’s a big shame, they go and die in silence because they’re so proud, they’ve been teached not to show witness while by knowing exactly who to talk to, you win time and you don’t spend time checking how to».

Louis Saha con la maglia del Manchester United | ANSA-EPA/INACIO ROSA / PAL – Footbola.it

Sono parole importanti: «Quando ti doti di un agent o un advisor, deleghi delle questioni importanti. Penso che i calciatori debbano esservi invece coinvolti direttamente, devono capire quel che fanno altrimenti a 25 anni hanno terminato la loro carriera». Il network è fondamentale e già Ferdinand, Drogba ed Evra hanno sostenuto il lavoro di Axis. Quando poi Saha nomina anche Cissé, ecco il pretesto per cambiare argomento: «La Lazio è un’opportunità arrivata tardi, come vorrei esserci andato due anni prima… Il calcio italiano è diverso, più tattico rispetto alla Premier, per me è stata comunque un’esperienza positiva perché volevo conoscere l’Italia come paese, come cultura. Rimango però sorpreso dell’immagine razzista dipinta sulla Lazio, con me club e tifosi sono stati grandissimi nonostante non fossi al top a livello fisico e, dunque, motivazionale».

Quando ho estratto una citazione di Ferguson («If I could have one striker in the world, it would be Louis Saha»), Sir Alex è stato corretto sul lemma «striker» anziché «forward», e in effetti è il margine che separa un cannoniere da una punta di movimento. Pure Rooney, che vide in Saha il suo partner ideale, era entrambi: «Mi ha semplificato la vita, segnava e giocava per la squadra con grande abnegazione». Se tecnicamente l’abnegazione è la traduzione che ho scelto per «confidence», rende bene l’idea: «Allo United sono arrivato in alto, mi sentivo un bambino in mezzo a van Nistelrooy, Cristiano, Giggs, Scholes, e questo mi ha reso un calciatore migliore perché avevo grosse responsabilità ma zero pressioni, perché prima di me dovevano sempre giocare loro, no?». In una Premier toccata a 24 anni, dopo tre stagioni al Metz, restano due grandi rimpianti: la finale di Champions League 2008 vinta sul Chelsea, «in cui non ero in campo, ma resta un ricordo che racconterò ai miei figli perché ero presente», e soprattutto il Mondiale 2006: «La gente mi dice ancora che se avessi giocato avrei segnato, però mi è dispiaciuto più per la sconfitta che per non esser stato impiegato».

Chiosa finale sullo Unitedha una gran storia, ma la passione dei tifosi è difficilissima da riprodurre»), su Rashford («a soli 21 anni è titolare e non ha soluzioni alternative a lui, servirebbe cresca con calma»), su Mbappé: «Penso debba segnare 35/40 reti come Ronaldo e Messi prima di fare il grande passo. He’s still a baby ma può cominciare arrivando in semifinale o in finale di Champions. Come ci è riuscito il Monaco, perché non possono replicarlo?».

Matteo Albanese

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