Essere Wayne Rooney non è impresa da tutti e non parlo solo per quanto riguarda le sue gesta sul campo da calcio che tanto hanno fatto sognare intere generazioni di tifosi inglesi e non: essere Wayne Rooney vuol dire per prima cosa essere impeccabili, umili, avere quel tipico aplomb inglese che, nonostante qualche piccola caduta di stile durante la sua grandissima carriera, lo ha accompagnato fin da quando era una giovane promessa con grandi sogni e belle speranze.
In questi giorni il suo nome è tornato a splendere di luce propria dopo una stagione totalmente in ombra alla corte di Mourinho, che ha detronizzato l’amato Rooney privandolo dell’onore di vestire la fascia da capitano del suo Manchester United e rilegandolo sempre più spesso in panchina, luogo che va stretto a chi come lui ha ancora tanto da dare al sempre più frenetico calcio inglese. Ed è proprio in mezzo a questa confusione composta da un perenne show di campioni platinati, dove passione e business si incontrano e si scontrano in ogni stadio, che Rooney ha fatto leva ancora una volta sulla sua umiltà, decidendo di ritornare alla casa base, in quell’Everton che gli aveva offerto qualche decennio fa un preziosissimo trampolino di lancio da utilizzare per spiccare il volo nel mondo dei grandi.
Romanticismo a parte, la mossa dell’astuto Wayne si è rivelata più che vincente: nelle prime due partite ufficiali l’attaccante ha messo a segno due reti, fra cui quella che ha portato a 200 il suo bottino ufficiale in Premier League, un vero e proprio record. Ma non è sicuramente delle sue avventure nella Liverpool tinta di blu che oggi vi voglio parlare; tra l’altro il campionato è appena cominciato e, per qualche ragione a noi ancora misteriosa, potrebbe rivelarsi addirittura un flop da qui all’ultima giornata. Chi vivrà vedrà, ma intanto Rooney, proprio nel grande momento del rilancio, quando il suo nome compare praticamente sulle copertine di tutti i giornali sportivi e risuona in molti discorsi degli appassionati di mezzo mondo, decide di strabiliarci ancora con la sua insostenibile leggerezza: con 119 presenze alle spalle (secondo soltanto alle 125 apparizioni di Peter Shilton) uno dei giocatori inglesi più amati di tutti i tempi decide di abbandonare la sua nazionale, proprio nella stagione che avrebbe potuto fargli giocare il Mondiale russo con la sua fascia da capitano.
Mossa azzardata? Io credo di no. Secondo qualche punto di vista (ed è anche il mio modesto parere) la sua è una scelta di pura umiltà, arrivata proprio nel momento giusto. Riflettiamoci insieme: il CT dell’Inghilterra, Gareth Southgate, non aveva convocato Rooney nelle ultime due amichevoli di giugno contro Scozia e Francia, ragionevolmente aggiungerei perché l’attaccante era reduce da una stagione sicuramente non facile, come vi accennavo prima. Adesso però la situazione si era paradossalmente capovolta perché in Rooney i Tre Leoni avrebbero ritrovato un capitano degno di questo nome, capace di reinventarsi dopo un periodo difficile e vestire nuovamente i panni del grande trascinatore, e non più quelle del giocatore che non trovava neanche più una collocazione sul rettangolo verde.
Lasciare la nazionale a soli 31 anni, un’età in cui relativamente si può ancora pensare di essere il protagonista (specialmente per uno come lui), può suonare strano e totalmente privo di senso, ma forse mollare la presa da eroe farà anche male, ma è sempre meglio che rivelarsi un fiasco totale ed essere cacciato in modo disonorevole dal CT di turno che per il bene della squadra non starà sicuramente a guardare il palmares e l’amore che si prova per la propria nazionale.
È proprio questa l’insostenibile leggerezza di uno come Wayne Rooney: il prendere coscienza del fatto che non si è più indispensabili, che la nuova leva comincia a dare i frutti sperati, e farsi elegantemente da parte, accettando con estrema umiltà una realtà da cui ormai non si può più fuggire. Good luck Wayne, il leone più coraggioso di tutta l’Inghilterra.
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