Si gioca troppo? La FIFPRO esprime ufficialmente la sua preoccupazione. Sono state sufficienti le prime partite di Nations League e primi infortuni per agitare il sindacato che denuncia le difficoltà legate a un calendario sempre più fitto di impegni.
Il nuovo report della FIFPRO ha diffuso i dati raccolti dal Player Workload Monitoring 2023-2024 (PWM Report): emerge che a volte si ha a disposizione meno di un giorno di riposo a settimana, contro gli standard internazionali di salute e sicurezza. In generale il PWM ha monitorato 1.500 giocatori: il 54% ha un carico di lavoro eccessivo, il 30% gioca più di 55 partite in una stagione e sei settimane consecutive di partite. I casi più eclatanti riguardano due argentini. Julian Alvarez, che ha giocato 75 partite in 83 convocazioni fra Manchester City e Argentina e Cristian Romero, che ha percorso 162000 chilometri per suoi viaggi professionali, sobbarcandosi anche lo smaltimento di diversi fusi orari in poche settimane.
I numeri lasciano in eredità oggettive difficoltà legate sia alla gestione dei calciatori sia al recupero dagli infortuni. Il 30% delle partite è composto da match internazionali, dunque fuori dal diretto controllo dei club che non possono impedire ai loro calciatori di essere convocati per competizioni internazionali ufficiali: in questa stagione, si parla di Nations League e qualificazioni Mondiali. Un impegno abbastanza importante al di fuori delle attività già logoranti previste dal calendario di un top club che deve fare i conti anche con la riforma delle competizioni europee, con altre due partite in più da giocare. Abbastanza per far scattare l’allarme: Stephane Burchkalter, segretario generale ad interim della FIFPRO, ha esortato le autorità calcistiche “a intervenire urgentemente per stabilire regolamenti che tutelino il benessere dei giocatori. La salute fisica e mentale dei calciatori deve essere una priorità per mantenere l’integrità del gioco”.
Chi controlla il controllore? Il vero problema è tutto qui: i dati FIFPRO sono legati a uno studio che in teoria andrebbe preso in considerazione, ma in pratica si riduce alla presa di coscienza di un problema che assume il contorno del ferro di cavallo. Non se ne esce: ridurre gli impegni significherebbe anche abbassare sensibilmente l’asticella dei ricavi e di conseguenza gli stipendi e il prodotto interno lordo dell’industria calcistica. E sebbene la quantità sia nemica della qualità in campo, è direttamente proporzionale agli introiti provenienti da diritti audiovisivi, sponsorizzazione e merchandising. Una bolla dove non c’è “ossigeno” per far respirare i calciatori, una sorta di male necessario per far quadrare i conti, garantire lauti stipendi e pieno regime al motore del sistema calcio.
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