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Zlatan racconta la guerra

“Della guerra non ho mai capito un granché” ha confessato Zlatan Ibrahimović nella sua autobiografia (“Jag är Zlatan”, in collaborazione col giornalista David Lagercrantz), non lasciando però in bianco e nero un disegno geopolitico che direttamente ha segnato la storia della sua famiglia. Il padre Šefik Ibrahimović Kinko nacque a Bijeljina il 23 agosto 1951, in tempo per vivere sulla sua pelle i bombardamenti del sanguinoso conflitto balcanico. Situazione straziante quella, cui il padre di Zlatan cercava di porre rimedio con la musica: cominciò con l’esigenza di liberarsi dal tormento interiore la carriera che nel 1987 lo portò a incidere un album, replicando quattro anni dopo sotto l’etichetta Sarajevodisk. Da quando le raffiche di colpi avevano raggiunto le finestre di casa Ibrahimović, però, lo scenario s’era fatto improvvisamente cupo. Un velo di terrore s’impadronì delle redini che trattenevano la famiglia attaccata alle origini bosniache, costringendo di fatto all’esodo in un polveroso ghetto di Malmö, il Rosengård, dove la saga di Zlatan avrebbe trovato terreno fertile su cui sviluppare il suo infinito ego.

Della guerra, però, l’autobiografia di Ibra tace. O meglio, lascia solo intendere che ai bambini veniva celata ogni cosa: “Non mi raccontavano mai niente, mi proteggevano, tutti si sforzavano tantissimo in questo senso”. Fermo restando che non sempre nella sua storia la Svezia è riuscita a garantire l’eterogenea assimilazione degli immigrati all’interno delle trame sociali esistenti nelle grandi città, e dunque favorendo involontariamente la ghettizzazione, si può benissimo andare a fondo in tal senso. Una caratteristica introspettiva emerge sempre di più, aggravata  (o meglio, agevolata) dalla separazione dei coniugi Ibrahimović: Zlatan col papà, Sanela a casa di mamma Jurka e zia Hanife. In questa visione strana, tale per cui Ibra non s’accorse del fatto che talvolta in famiglia la componente femminile si vestisse di nero, si giocava una partita a carte e una parallela sotto il tavolo. A un certo punto, ecco un classico evento separatore: “Mia nonna materna era morta“. Fatale, per lei, un bombardamento in Croazia: “La piangevano tutti, tranne me che non dovevo sapere, e non dovevo curarmi del fatto che le persone fossero serbe o bosniache o chissaà cos’altro”. Tutto spiegato, il lutto, quella straziante voglia di sfogarsi ma al contempo l’esigenza di celare al piccolo Zlatan una realtà evidentemente più grande di lui. Non ci sarebbero riusciti tutti.

A casa del padre, Zlatan ricorda poi il frigo vuoto eccezion fatta per le birre. Sempre numerose quelle, tipicamente Carlsberg come vuole la tradizione scandinava, preferibilmente lattine che la mattina facevano la loro comparsa vuote, sul lavandino. “Quello che soffriva di più era papà”. Innegabile, non bastava una semplice canzone a velare una realtà di  cruda separazione coercitiva dalla propria terra. “Era stato muratore laggiù, e tutta la famiglia e i vecchi amici abitavano ancora in quella città che adesso, all’improvviso, era diventata un inferno”. Un inferno. Il ritmo incalzante delle mitragliatrici per strada, l’accoglienza mutata in spettro, la nuova convivialità per nulla spensierata. “Bijeljina fu praticamente violentata, e non è poi così strano che papà riprese a definirsi musulmano, niente affatto. Tutta la famiglia fu costretta alla fuga”. Anche la vecchia casa degli Ibrahimović non poté sottrarsi alla sorte di cambiar repentinamente padroni di casa, senza preavviso. D’impatto, come nel peggiore degli incubi tramutatisi in realtà nuda e cruda.

“Papà, dopo il lavoro, non aveva mai tempo per sé. Aspettavamo tutta la sera i notiziari alla tv o qualche telefonata dal suo paese“. I telegiornali che andavano in onda alla sera avevano il duro compito di annunciare, come il più sventurato degli ambasciatori, se la giornata conclusa avesse visto significative evoluzioni. L’ambiente gli era favorevole, perché a Rosengård la maggior parte della popolazione proveniva dalla Jugoslavia. Come la musica che Šefik componeva, giurando di farlo solo per sé stesso ma rivelando allo stesso tempo come la sua carriera sarebbe potuta emergere ulteriormente se solo non fosse nato Zlatan. Chissà come sarebbe andata la storia, se la Svezia si fosse trovata priva del suo miglior attaccante dell’epoca recente. Di certo c’è solo una guancia solcata dalle lacrime, di un padre che oltre a crescere il figlio manteneva un constante contatto con la sua terra: “La guerra lo divorava, e seguire gli sviluppi divenne per lui un’ossessione. Stava seduto lì da solo e beveva e soffriva, e ascoltava la sua musica”.

Matteo Albanese

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