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Diego Maradona, con i miei occhi

Non chiedetemi di raccontarvi il Maradona calciatore perché non ho avuto l’età per vederlo nel suo tempo. Non chiedetemi di raccontarvi il Maradona idolo del popolo perché non ho vissuto tra la sua gente. Il Maradona che vi posso raccontare è quello vissuto coi miei battiti, quello in grado di essere Maradona anche nelle situazioni in cui era più complicato esserlo, in cui ha dato il lato mistico di se stesso sapendo in quei casi di non poter essere il migliore al mondo.

Il Maradona che ho vissuto è il lato meno romantico e leggendario della storia, quello più complicato, che cerca un secondo inserimento nel mondo che lo ha reso grande pur non avendo la possibilità di cambiare il calcio e deciderlo come quando era dentro al campo.

Il Maradona che ho vissuto indossava scomodi abiti eleganti o tute sociali che imprigionavano il suo estro tecnico, ma che non limitavano il suo essere al di sopra dei fatti, il suo poter essere comunque sempre l’epicentro di tutto. Non era in campo, ma in panchina, non era un fenomeno, ma era comunque una star.

Di avventure da allenatore ne ha avute tante e alcune anche decisamente sopra le righe, ma è chiaro che la panchina dove è più facile inquadrarlo è quella dell’Argentina. E in quel cammino verso Sudafrica 2010 c’è tutto il mio Maradona, sensazionale nella sua imperfezione, un contrasto netto con l’immagine invincibile che mi è stata trasmessa da racconti, documentari e partite recuperate, così vulnerabile ma allo stesso tempo sempre grandioso.

Il girone di qualificazione ai Mondiali è stato un supplizio, ma allo stesso tempo un viaggio meraviglioso nelle sue emozioni, disordinate e poco lucide. Un tuffo come quello nella “piscina del Monumental” dopo il gol di Martín Palermo al Perù, che evitò che quel girone diventasse drammatico. Scelse attori a modo suo per la sua qualificazione: l’uomo da film per eccellenza, il Loco Martín, e il protagonista più inatteso di tutti, Mario Bolatti, l’autore del gol che ufficializzò la qualificazione nella sfida contro l’Uruguay.

Ma in quel tuffo nella partita più complicata della sua vita, è il momento di massimo pathos di questa sua seconda vita: è l’attimo in cui torna a essere tutti noi, o ciò che tutti noi vorremmo essere. Istintivo, creativo, ancora una volta al di sopra delle difficoltà, capace di cavalcare le pozze del campo invece di temerle.

Ma per rendermi conto di chi fosse realmente Maradona ho dovuto aspettarlo quel Mondiale, all’età giusta per capire come gli altri vivessero il calcio. E l’immagine che non potrò cancellare dalla mia mente è un pub in pieno centro a Roma dopo Argentina-Messico, partita decisa da uno strepitoso Carlitos Tévez. La gente argentina in vacanza in Italia è in festa in piedi sui tavoli, salta e si tira rotoli di carta igienica, ma di sottofondo la canzone è sempre la stessa. È la Mano de Dios, di Rodrigo, uno degli omaggi più belli fatti al Pibe de Oro in ambito artistico.

A poco que debutó Maradó, Maradó“. Altri salti, altra carta igienica. “La doce fué quié coreó, Maradó, Maradó“. E via così, finché non lascio il posto. È uno di quei momenti che ti cambia la percezione delle cose, in cui capisci che la gente crede in lui in quanto Diego, non in quanto bravo allenatore. Lì dove la magia e la mistica superano il calcio, lì dove si attribuisce il divino all’umano, lì dove la speranza dipende dalla fede in un uomo, lì ho trovato il mio Maradona. 

Simone Gamberini

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