Mentre il caos regna a Marsiglia, De Zerbi litiga con tutti e lascia una scia di tensione. Eppure, il suo nome rimbalza nei corridoi di Casa Milan. Dopo Fonseca e Conceição, serve davvero un altro azzardo?
Roberto De Zerbi è uno di quegli allenatori che dividono. C’è chi lo venera come un innovatore, un demiurgo del gioco di posizione, un filosofo del pallone. E c’è chi, come noi milanisti disillusi, comincia a chiedersi se serva davvero un predicatore del bel calcio quando il tempio è in macerie. Le cronache da Marsiglia parlano chiaro: spogliatoio spaccato, rapporti ai ferri corti con la dirigenza, sfuriate pubbliche. Un uomo in fuga dal caos… che però contribuisce a generare.
In un Milan confuso, che ha smarrito la propria identità dopo Pioli, che ha affidato le chiavi a Fonseca per poi pentirsene troppo tardi, e che con Conceição ha solo aggiunto ulteriore fumo all’arrosto, ci chiediamo se De Zerbi sia davvero la risposta. O solo l’ennesima domanda.
Il problema, come spesso accade, non è (solo) l’allenatore. È il contesto. È la mancanza di visione. È l’incapacità, ormai cronica, di costruire una progettualità duratura. A Milanello convivono troppe anime: RedBird, Furlani, Moncada, Ibra. Nessuno sa davvero chi decide cosa. Nessuno, soprattutto, risponde pubblicamente delle scelte. La sensazione, più che la certezza, è che il Milan sia diventato un laboratorio improvvisato in cui si alternano intuizioni e ripensamenti, con l’ansia di dover dire sempre qualcosa senza sapere davvero cosa fare.
In questo contesto, De Zerbi – tecnico brillante ma caratterialmente complesso – rischia di diventare un altro corpo estraneo. Un’altra scintilla su un terreno già secco. Serve uno capace di unire, di mediare, di costruire dal basso (e non solo in campo). Non uno che al primo attrito esplode e minaccia di mollare tutto.
Siamo stati abituati male, forse. Perché quando hai avuto in panchina Ancelotti, Capello, Sacchi, persino Allegri nei suoi anni migliori, è difficile rassegnarsi alla mediocrità attuale. Ma non si tratta solo di rimpiangere il passato: si tratta di capire cosa siamo diventati. Il Milan di oggi non è più il club delle notti magiche, ma neppure può accontentarsi di vivacchiare tra scommesse e tentativi.
Kaká, Sheva, Pirlo… giocatori che non solo illuminavano San Siro, ma erano guidati da uomini che sapevano gestire la pressione, le aspettative, i media. Ecco perché l’arrivo di De Zerbi – con tutta la sua verve e il suo calcio cerebrale – lascia più dubbi che speranze. Il Milan non può permettersi un’altra stagione vissuta sul filo dell’instabilità emotiva e tattica.
La verità è semplice: a questo Milan serve meno estetica e più sostanza. Meno proclami e più lavoro. Meno filosofie astratte e più certezze. De Zerbi è un affabulatore, un amante della complessità, un tecnico affascinante… ma il Milan ha bisogno di un comandante, non di un funambolo.
In un film che ricorda troppo spesso un’opera di Antonioni – lenta, silenziosa, piena di vuoti – serve un cambio di tono, non un altro sussurro. Lo abbiamo detto con malinconia e ora lo ripetiamo con urgenza: ritrovare l’identità, prima ancora della bellezza.
Perché San Siro non ha bisogno di poesia: ha bisogno di vittorie.
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