Remuntada doveva essere, remuntada sarebbe stata. I presupposti per Cardiff c’erano tutti, è stata la serata in cui dopo 15′ l’Atlético si trovava già sul 2-0. Ma la sorte, che prima ha aiutato i colchoneros facendo calciar malissimo il rigore a Griezmann e tenendo un goffo Keylor Navas al pari di un burattinaio con le sue marionette, non ha avuto pietà. E quindi, niente regali solo perchè si trattava dell’ultima historica di Champions al Vicente Calderón: il reggimento del Cholo ha pagato a carissimo prezzo gli errori dell’andata, uno sbando, una disfatta che aveva tagliato le gambe già prima di entrare in campo. Ma l’anima materassaia è anche questo, quel nunca dejes de creer tanto fiero quanto utopistico, e allora ci è voluto Isco a spegnere la fiammella che pur ridotta ad un lumicino divampava ancora. Nella speranza che qualcuno (Gameiro?) la alimentasse in qualche modo. Così non è stato.
La giornata era cominciata con il calorosissimo benvenuto alla squadra: i video, che hanno letteralmente intasato la rete, mostrano l’equipo intenta non a varcare la soglia dell’albergo, bensì a mantener gli occhi fissi sul popolo che fino a quel momento li aveva supportati. Se puede, il mantra della settimana, accompagnato dall’hashtag #NoLoPuedenEndender in risposta al “decidme que siente” dell’andata al Bernabeu. Oltre a cori, fumogeni accesi e allo striscione “Hasta la última gota de sangre”, il calore unico che solo l’afición colchonera è in grado di offrire. Ci credono, eccome se ci credono: addirittura, il Frente Atlético prende spunto dal barcelonismo per sferrare un attacco frontale ai cugini. “Una empresa catalanista para el tifo madridista”: in una sola parola, remuntada.
Insomma, se è stata una guerra spostata dal campo militare a quello psicologico, allora si potrebbe dire che l’Atlético avesse avuto lo stesso trattamento del Madrid: nei primi 15′ minuti dell’ultima al Calderón. Almeno inizialmente, quando ossia le folate di Ferreira Carrasco rimandavano nostalgicamente al rude tap-in con cui il belga aveva ristabilito il pari a Milano, lo scorso anno. Il numero 10, stasera, ha suonato la carica come nessun altro dei suoi prima però di perder lucidità alla distanza. Nel primo quarto d’ora, tutto pareva perfetto: psicologicamente, tempisticamente, materialmente soprattutto. La zuccata di Saúl, che lo scorso anno di questi tempi si prodigava in un goal maradoniano al Bayern, è descritta come un’avión che si erge nell’aere luminoso sulla riva del Manzanarre e imparabilmente trafigge Navas. Così come a San Siro, l’immenso astio di Torres nei confronti dei blancos si tramuta in un calcio di rigore che El Niño strappa da Varane: così come a San Siro, dagli undici metri va Griezmann che calcia malissimo (tiro centrale e a mezz’altezza, ma soprattutto toccando due volte il pallone: sarebbe stato da ripetersi) ma per sua fortuna Navas abbocca nell’involontaria trappola. Che fosse in credito con la sorte per la traversa di Milano?
Da qui in poi, mentre Zidane è gelido, il Cholo predica ai suoi la massima calma ma pretende più chiasso possibile dagli spalti. La bolgia, le fiamme divampanti dall’inferno, tutto magnificamente secondo i piani. Se non fosse, tuttavia, che l’Atlético arretra il suo baricentro e il Real, capendo, cerca quando può di colpire il nemico sul fianco scoperto (quello destro, dove l’assenza di Juanfran e l’infortunio di Vrsaljko hanno obbligato a proporre lì Giménez). I blancos accelerano, fino a quando il brevilineo Benzema porta a spasso cinque giocatori rojiblancos e danza come un folletto sulla linea di fondo, nascondendo il pallone per farlo poi riapparire qualche metro davanti a sé. La giocata prende in controtempo tutta la retroguardia guidata da Godín, il pallone messo in mezzo viene calciato da Toni Kroos. Jan Oblak può fare un miracolo, ma sulla respinta centrale il più lesto è Francisco Román Alarcón Suárez. Isco per gli amici, ma non è certamente il caso dei colchoneri. Il Real pareggia il computo dei gol.
La botta subita si fa sentire, a ridosso del 45′, ma i cori e il supporto continuano fino al fischio di Çakir. Mediaset Premium accompagna gli highlights del match con “Bailame“, di Nacho (che non è il difensore merengue). Nella pancia del Calderón, alla 50° e ultima apparizione in Champions, si sviluppano le più segrete alchimie finalizzare al perseguimento dell’unico obiettivo: vincere e, a questo punto, con quattro gol di scarto. Quando però si rientra, il Real non è più quella riverente squadra che con atteggiamento passivo aveva acconsentito al rapido due a zero: il tempo svolge una funzione ambivalente. Alleato con Zidane, peggior nemico del Cholo. Succederà più poco: doppio cambio, con Thomas ad agire da terzino destro al posto di un frastornato Giménez e Gameiro a rilevare Torres. Il francese avrà due ghiotte occasioni: la prima di testa, dopo miracolo di Navas su Carrasco, la seconda di piede in seguito ad un suggerimento proveniente da Ángel Correa, il terzo e ultimo cambio di Simeone. Della disperazione, ça va sans dire. E’ una corsa contro i secondi: al momento del cambio, ad esempio, Giménez era uscito dal campo dal lato opposto alle panchine per risparmiar qualche secondo. I raccattapalle sembrano fulmini, hanno sempre un pallone pronto. Los del Manzanares si agitano, continuano: sanno perfettamente che se non c’è sofferenza non c’è l’Atléti. Simeone è una furia, diventa una lotta intestina contro i nervi: i cartellini continuano a volare, ma sono solo una minima parte di quelli richiesti dalle due squadre. Si lotta ai limiti del bestiale, si protesta come manco durante le sommosse operaie. Questa volta, la rivoluzione, l’avrebbero fatta volentieri quelli poveri, i materassai: l’epicità della classe media è anche questa. Dicevo, del Cholo: si agita, urla, chiede ai tifosi di cantare. Per l’ultima volta nella storia in questo impianto, hasta la última gota: non de sangre, ma di saliva. Ad un certo punto, quando la tensione dilania l’animo umano ancor più di vedere El Madrid palleggiare con una nonchalance odiosa, il Cholo esplode e si strappa di dosso la giacca poi spedita in tribuna. Un feticcio, per il tifoso che se la sarà tenuta a ricordare una serata storta ma un epopea mitica.
L’iconica bellezza del Calderón, abbagliante in tutta la sua simmetria, cela però dei lati negativi: quando la pioggia decide di presenziare alla serata di gala, solo la tribuna centrale è al coperto. Tutto il resto dello stadio, che da settembre sarà sostituito dal Wanda Metropolitano, è in preda al meteo avverso. Una pioggia cadente, una cascata, che ci teneva senza dubbio a salutare lo stadio: tutto questo al termine di un giorno carico di sole e nuvole alternati, ma anche al termine di un’avventura fantastica. Una leyenda, le notti qui a tifare per i rojiblancos. E’ la più chiara conseguenza di una fede incrollabile, di un cholismo che è arrivato e si è preso questo lato di Madrid, di una maledizione che dura dal 1959 (quando il Real vinse il replay del derby, nelle semifinali) e che negli ultimi tre anni si era fatta insopportabile. Maledetta, appunto: Lisbona 2014 e Milano 2016, intervallate da una rete del primo messicano di turno a spedire il Real oltre i quarti di finale del 2015. E giusto un anno e una settimana fa esatti, l’Atlético de Madrid si qualificava per la sua seconda finale in due anni. Di nuovo derby, delocalizzato a San Siro. Sappiamo tutti troppo bene come andò.
L’orgullo, è quello che rimane di una notte come questa. “Orgullosos de no ser como vosotros”, la fiera dicitura apparsa come coreografia negli istanti prima del via alle ostilità, il manifesto colchonero per eccellenza. Roba da brividi. “Non veniamo da Beverly Hills” aveva detto Ramos, altro materiale sul quale andrebbe scritto un libro e non un articolo. Nel frattempo, oltre alla pioggia, pure i lampi sovrastano il cielo di Madrid e giungono appositamente per vedersi lo spettacolo. Che non è il Real prenotare l’hotel per Cardiff, attenzione, bensì l’Atléti vincere. Una serata così romantica, bagnata da pioggia e amore, di lacrime e nostalgia, non si può che amarla vivendola fino in fondo. Fischia tre volte Çakır, Simeone applaude i tifosi. Una nuova avventura è in programma sia per lui (ha ridotto la scadenza del contratto al 2018, ma chissà se rimarrà) e per l’Atléti che traslocherà dalla zona sud a quella nord-est della capitale iberica. Il Real perde imbattibilità in questa Champions, per i colchoneros rimane una vittoria che pur inutile ai fini del risultato consente di dare addio allo storico Calderón con un peso in meno sul cuore. Hasta la última gota. E con il postpartita di Premium, sulle note allegre e spensierate della hit del momento, Despacito, ci si avvia a programmare il futuro. ¡Aúpa!