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Una década de éxitos, da Sulantay a Pizzi

L’atto nostalgico di riportare indietro le lancette di un orologio quasi a volersi immergere nella purezza di un momento irripetibile è materiale filosofico per eccellenza. Non serve però scomodare Henri Bergson, riavvolgendo il nastro ripreso in mano. Si torna nel 2005 e nel 2007, siamo in Sudamerica e la Rojita di José Sulantay, allora, vinse due coppe del mondo U20 a due anni di distanza. In Olanda emersero i vari Jara, Carmona, Marcelo Díaz, Mati Fernández e Fuenzalida. In Canada, dove arrivò uno storico terzo posto, toccò a Toselli, Isla, Medel, Vidal e Alexis Sánchez. Le basi per la Next Gen erano state poste: il 18 ottobre 2008 è arrivato il primo successo contro l’Argentina, nelle qualificazioni mondiali: a romper la maledizione è stato Bielsa, servitosi della rete di Orellana. Anche grazie a quei tre punti la Roja sarebbe sbarcata in Sudafrica: Bravo, Ponce, Medel, Beausejour, Estrada, Millar, Mark González, Mati Fernández, Alexis Sanchez, Humberto Suazo. Dopo 48 anni, ossia dopo Cile 1962, è stata vinta una partita (quella contro l’Honduras, decisivo Beausejour) e il bis è arrivato quando Mark González ha annientato la Svizzera. Ottavi di finale, eliminazione da parte del Brasile. Un τόπος, direte voi.

Cacciato Borghi dalla panchina, ecco Jorge Sampaoli in sella alla creatura che avrebbe portato in cima al Sudamerica. Fino ad allora il Cile aveva già giocato due edizioni consecutive del Mondiale (quella casalinga del ’62 e quella inglese del ’66), ma mai era riuscito a qualificarsi oltre i gironi di entrambe. E invece, nel raggruppamento della morte con Spagna e Olanda, ecco il 2-0 contro la Roja europea: “C’è il delirio al Maracanã” cantava Emil Killa, mentre quell’undici trafiggeva senza ogni tipo di timor reverenziale la Spagna guadagnandosi il pass per gli ottavi: contro il Brasile padrone di casa, contro quella santa trave scheggiata due volte da Pinilla (una a ridosso del 120′, l’altra dal dischetto, nella lotteria), non ci fu storia. Il Cile si fermò lì, ma ottenne credito e simpatia. Magari pure per la vicenda dei minatori (“nos importa la muerte ¡porque a la muerte la hemos vencido antes!”) e del loro spot motivazionale per caricare la nazionale con tanto di sabbia riversata sul campo d’allenamento della Roja. Anno dopo. In casa, nel 2015, ecco il climax. Primera vez da campeón, la Copa América di Santiago. Ecuador, Bolivia e Messico le vittime al girone, poi Uruguay, Perù e Argentina in finale. La storia è stata insignita di un nuovo capitolo, nel momento in cui Alexis si concesse di farmi scrivere, oggi, del cucchiaio col quale, davanti al Chiquito Romero, assicurò al Cile la sua festa.

Tra Brasile 2014 e le qualificazioni per Russia 2018 è arrivata una striscia di 9 partite senza sconfitte, record (7 vittorie, due pari) che ha superato quello iscritto tra 1981 e 1985. L’8 ottobre 2015, due anni fa grossomodo, Sampaoli giocò contro il Brasile a Santiago. Nella pancia dell’Estadio Nacional ecco venir partorita la prima vittoria contro la Seleçao, a 15 anni di distanza dall’ultima. Una vendetta, pur minima, per lo sgarbo del 2014. Il 7 aprile 2016 ecco il terzo posto nel ranking FIFA, miglior risultato di sempre dopo Germania e Argentina. A fine anno, la Roja era ancora lì sul quarto gradino. Rampa di lancio per la Copa América Centenario, quella del 2016, quella ospitata dagli States: anche qui marcia trionfale nel girone (ko contro l’Argentina, vittorie contro Bolivia e Panama), poi 7-0 al Messico Tri-ridulo e 2-0 alla Colombia. Finale, contro l’Albiceleste, ancora un tecnico argentino (Pizzi): copione scontato, non più Alexis ma El Gato Silva dagli undici metri. Storia ripetuta. Altro 4-2, ma con una differenza. Se l’anno prima si era trattato di un’impresa senza precedenti, stavolta si rasentava il miracolo.

Il viaggio termina nel 2017, quando i campioni del Sudamerica hanno rappresentato per la prima volta la Conmebol nella Confederations Cup. Nonostante vari avversari di caratura internazionale, la Roja si è fatta strada fino alla finale ma è crollata dinanzi alla Germania (1-0). Nonostante questo, la rosa di Pizzi aveva raggiunto vette inaspettate e insperate. Scrissi di un ardito paragone con Narciso (QUESTO il pezzo), quando mi trovai a raccontare di uno sciagurato Ángelo Sagal. Tutti ricordi che affiorano improvvisamente, coadiuvati dal più fluente dei flow of thoughts. Uno stream of consciousness degno del miglior Wilde, se solo Sagal avesse avuto l’acume di Ulisse nel depositare in rete un pallone che avrebbe riscritto la storia finora conosciuta. E pazienza se ormai la Generación Dorada ha raggiunto il suo apice, la sua flessione e conseguentemente la sua fine. Poco importa se Russia 2018 sarà un clamoroso buco nell’acqua. “Una década de éxitos”, un decennio di successi, è quello che ha consacrato la Roja on top of the world. Ed è anche quello che finisco ora di raccontarvi, in questo pezzo.

Matteo Albanese

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