L’ultimo saluto a Totò Schillaci si porta via il simbolo, ma non il ricordo delle notti magiche, un mese indimenticabile che, nonostante non sia stato coronato dal successo, ha regalato emozioni straordinarie e riunito una nazione. Schillaci incarna le parole dell’inno del Mondiale, che forse non tutti sanno si intitola “Una estate italiana”. Saranno “notti magiche” come il ritornello, e il coronamento di “un sogno che comincia da bambino”. Neanche doveva esserci a quel mondiale, Totò. La sua figurina, nell’album, non si trova perché dopo solo un anno di serie A e l’esordio in azzurro non indimenticabile con la Svizzera, nessuno pensava fosse convocato. Invece ai mondiali “Totò” ci va. E diventa il Salvatore della patria calcistica. Questa non è solo una storia di calcio, ma di riscatto sociale.
L’inizio di quella estate non è facile. Agli occhi dei più beceri, i subumani del XXI secolo, Schillaci era un “terrone” epiteto che oggi neanche si usa quasi più ma allora poco simpatico ma molto in voga fra chi negli anni ’90 si divertiva così per etichettare in modo dispregiativo chi viene dal sud, “terra” appunto diversa rispetto al Nord. Schillaci, al suo primo anno in serie A, paga le sue umili origini palermitane: negli stadi era inseguito da cori odiosi, ripetuti persino a Bari, che proprio non è settentrione. È li che Totò è ferito nell’animo, non si aspettava di essere disprezzato anche al sud. La sua rivincita inizia con il mondiale.
L’Italia esordisce contro l’Austria all’Olimpico. Partita scomoda: il Ct Azeglio Vicini sceglie la coppia d’attacco Vialli – Carnevale, sostituito in corso d’opera. Entra Schillaci. Ed è subito magia. Vialli lavora un pallone sulla fascia destra e lo mette al centro. In mezzo all’area ci sono due arcigni difensori austriaci ampiamente sul metro e ottanta. Fra di loro, un attaccante di 173 centimetri che non eccelle nel gioco aereo. Gli dei del calcio però lo hanno benedetto: Schillaci trova tempo e modo di correggere quella traiettoria con una frustata di testa. Gol ed esultanza con quegli occhi spiritati, misto di gioia e stupore, ma così genuini da generare il classico colpo di fulmine. È il segno: sarà il suo Mondiale.
Schillaci parte dalla panchina contro gli USA, ma è titolare, con Roberto Baggio, nella sfida contro la Cecoslovacchia da vincere a tutti i costi per restare primi nel girone e rimanere a Roma. E dopo 10 minuti un pallone colpito da Giannini rimbalza sull’erba abbastanza da finire sulla testa di Schillaci. 1-0. Delirio. Baggio chiuderà il conto con uno dei gol più belli messi a segno in quel torneo. Si resta a Roma, ottavi di finale complicati, contro l’Uruguay. La sblocca ancora Totò, con il piede debole, il sinistro, sfruttando una sponda di Aldo Serena e scagliando un bolide da fuori area che prende una traiettoria allora senza senso. Oggi la chiameremmo “maledetta”. Lo stesso Serena chiude il conto. Quarti di finale contro l’Irlanda, ancora all’Olimpico. Tiro di Donadoni, Bonner si tuffa ma non trattiene, il pallone dove volete che finisca: sui piedi di Schillaci, ormai per tutti Totò, che deve solo poggiarlo nella porta spalancata e senza portiere a difenderla. Quattro gol valgono la semifinale.
Totò Schillaci ha già vinto il suo mondiale. Da comparsa ad attore protagonista di una favola azzurra che sembra non finire mai. Sembra, appunto. Contro l’Argentina, a Napoli, l’Italia gioca praticamente fuori casa. A quelle latitudini regna Diego Armando Maradona. Nonostante tutto, Schillaci non perde il suo tocco magico: questa volta non segna né di piede né di testa, ma di stinco. Fonti certe raccontano di un Giannini che lo rincorre urlando “ma che fortuna (eufemismo) hai ma che fortuna hai”: il conto arriva ai calci di rigore, dopo il pareggio di Caniggia. Dal dischetto Donadoni e Serena si fanno ipnotizzare da Goycochea, lo “Schillaci” argentino in porta quasi per caso dopo l’infortunio di Pumpido ma capace di trascinare l’albiceleste in finale. Il sesto gol, quello che vale il titolo di capocannoniere del mondiale, arriva su rigore contro l’Inghilterra nella finale del terzo e quarto posto. La favola senza lieto fine lascia in eredità un terzo posto e comunque ricordo dolcissimo, la nostalgia di sogno di una mezza estate che neanche la realtà ha impedito di trasformarsi in una pagina indimenticabile. Buon viaggio Totò.
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